Prima che un militare, Slobodan Praljak fu regista. Uomo di cinema e teatro. Ha scelto così, per la sua morte, la scena perfetta. Meditata come una sceneggiatura. Il clou di una vita da criminale di guerra – lo ha decretato il Tribunale dell’Aja – ma che è stata, se non illustre, certo la vita di un uomo poco comune.
Non poteva pertanto, il generale Praljak, lasciarsi trattare per la restante biografia da esecrato detenuto condannato a vent'anni, lui che ne aveva già settantadue. Né poteva banalizzare il rifiuto della sentenza con un suicidio sommesso e repentino, come quello di un celeberrimo predecessore, Hermann Göring, che a Norimberga si spaccò la fiala di cianuro in bocca per evitare l’onta della forca. Ma Göring portava nella tomba, assieme ai crimini, un’esondante vanità. Non la tecnica di un regista e di un direttore artistico. Non una laurea alla Film Academy dell’ateneo di Zagabria. Come, appunto, Slobodan Praljak.
Regista, filosofo, ingegnere
Lui l’ha pensata così: alla lettura della sentenza, davanti alle telecamere, scandisco in piedi la protesta definitiva. Che “non sono un criminale di guerra”. Poi berrò il liquido mortale da una fialetta. Tutto il mondo – anche la larga fetta che la guerra nell'ex Jugoslavia, e le sue atrocità, conosce a stento per sentito dire – saprà di Slobodan Praljak: bell’uomo, grande ingegno, laurea in ingegneria elettronica, una seconda in filosofia, un ulteriore diploma alla Film Academy. Poi la direzione di teatri a Zagabria, Osijek, Mostar. Solo dopo questo curriculum, quando è già una persona fatta che può ben dirsi realizzata, lui nato nel ’45 - siamo ormai nel 1991 - si arruola nelle Forze armate croate per la guerra d’indipendenza.
E’ con lui, nel suo carisma che si forma quest'inusuale legione reclutata a Zagabria e composta di artisti e intellettuali che prendono dimestichezza con mitra e bombe a mano. La storia ripete gli schemi e loro sembrano, a cercare precedenti italiani, dei tipi alla Alessandro Pavolini, che un certo giorno passano da una redazione alla mimetica, dalla cattedra al blindato come per naturale evoluzione.
Il regista Praljak, come se l’avesse sempre fatto e non l’aveva fatto mai, trapassa dal palco alle stellette. Come un provetto militare di carriera mette in scacco l’esercito jugoslavo e quello serbo, fronteggia professionisti delle armi che contano su numeri e risorse preponderanti. Ma la guerra (malgrado qualche volta gli somigli) non è il cinema. E il regista, filosofo e ingegnere vi si invischia tra sangue e fango, assurgendo dopo l’accordo che pone fine all'assedio di Sarajevo, alle stellette di generale. E' tra i 14 capi supremi della Difesa croata e per la Croazia tiene i rapporti con le forze dell’Unprofor.
La scena del ponte
Quel che lo porterà sul banco degli imputati, con altri cinque accusati di crimini di guerra nella ex Jugoslavia dinanzi al Tribunale internazionale, saranno i massacri di massa della popolazione musulmana bosniaca, comandati direttamente o indirettamente in trenta centri di Bosnia e Herzegovina. Col suo grado, Slobodan Praljak doveva sapere, come doveva sapere della distruzione del Vecchio Ponte di Mostar, uno dei gioielli ottomani nei Balcani, capolavoro di architettura islamica e cuore stesso della città. Un’accusa che, come le altre, il vecchio regista ha sempre respinto, sostenendo che il ponte fu fatto esplodere dall’armata bosniaca e non dai suoi soldati. Un’accusa che a uno della sua cultura faceva forse più male - l'avrebbe relegata fra le scene tagliate.
Per l’ultimo ciak della vita, il suo plateale suicidio, sarà più vastamente ricordato che per qualsiasi cosa abbia fatto. Ne è stato sceneggiatore, regista, attore protagonista.