"Ho accettato la richiesta del presidente Aoun di sospendere le mie dimissioni, nella speranza che cio' possa condurre ad un dialogo responsabile tra le fazioni politiche, rinnovando l'impegno a rispettare i principi base del consenso nazionale e a risolvere le questioni che hanno un impatto sulle relazioni del Libano con i suoi vicini arabi".
Le parole di Saad Hariri, al suo ritorno in Libano dopo 18 giorni di assenza, cominciati con l'annuncio a sorpresa delle dimissioni da primo ministro, hanno animato il settantaquattresimo anniversario dell'indipendenza del Paese dei Cedri, un evento svoltosi all'insegna del suo rimpatrio, da quello che molti, in Libano, a partire dal presidente Michel Aoun, hanno considerato un sequestro del premier libanese da parte dei sauditi. Il figlio dell'ex primo ministro Rafiq, arrivato nella notte tra il 21 e il 22 novembre a Beirut con un volo partito dal Cairo e passato per Cipro (dove si è intrattenuto in un fuori programma con il presidente Anastasiades), ha deciso di fare un passo indietro, sospendendo la decisione annunciata il 4 novembre con un messaggio televisivo direttamente da Riad, capitale dell'Arabia Saudita. Un evento senza precedenti nella storia: il primo ministro di un Paese che rassegna le sue dimissioni dalla capitale di un altro Paese. Così, le tensioni che per quasi tre settimane hanno scosso la repubblica libanese alle fondamenta sembrano essersi affievolite, perlomeno nel breve termine. Si apre, però, un nuovo periodo di incertezza e di stallo, due condizioni che i libanesi conoscono bene.
Gli indizi a favore della tesi del sequestro
In realtà a molti - da Aoun al leader di Hezbollah, Nasrallah, passando per il presidente francese Emmanuel Macron e il ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel, o a quello del Qatar - quella di Hariri a Riad era parsa tutt'altro che una decisione autonoma: una questione di linguaggio del corpo e linguaggio verbale, avevano fatto notare alcuni. Lo sguardo quasi assente, la postura rigida, l'uso massivo ma anche un po' goffo di termini che non sono mai stati parte del suo vocabolario, e che invece rimandano alla retorica anti iraniana dei sauditi ("tagliare le mani iraniane che si estendono sulla regione"), sono tutti elementi che hanno indotto a credere che Hariri stesse leggendo una lettera scritta da altri, che conteneva una decisione non indipendente. Anche la denuncia di aver ricevuto minacce di morte, e addirittura la notizia pubblicata da Al Arabiya secondo cui il premier sarebbe scampato ad un attentato a Beirut (non riscontrato dalla sicurezza interna libanese), sono apparse non del tutto chiare, e la loro gravità sembra essersi dissolta in poco tempo.
Un lapsus rivelatore?
Cinque giorni dopo il sorprendente annuncio, poi, a Riad viene inviata Paula Yacobian, conduttrice dell'emittente del partito Futuro di Hariri, e anche unica persona del suo entourage ammessa nel regno saudita per intervistare quest'ultimo. "Non riesco a convincere nessuno che lei non è tenuto in ostaggio dall'Arabia Saudita, ora anche io che sono qui vengo accusata di essere parte di un teatrino. Lei è libero?", chiede Yacoubian ad Hariri, mentre quest'ultimo fissa nervosamente un uomo in sottofondo con un foglio in mano, ripreso dalle telecamere della tv. Hariri forse è vittima di un lapsus, perchè accenna "non sono libero di..", per poi correggersi: "sono libero di muovermi nel Regno". La Yacoubian non risparmia domande dirette: "Ha scritto lei la lettera di dimissioni? Molti dicono che quello non e' suo linguaggio, non è il suo modo di parlare". "Si, l'ho scritta io", si affretta a rispondere il premier libanese.
Il professor Asad Abukhalil, della California State University, fa notare che si tratta di una risposta rivelatrice: Hariri, infatti, non scrive mai i suoi discorsi, di cui si occupa il suo staff. Uno dei motivi, banalmente, è che non sa scrivere correttamente in arabo standard. La giornalista non sembra soddisfatta della risposta, gli ricorda che anche i suoi sostenitori nella comunità sunnita libanese pensano che sia prigioniero, e che nulla nel suo linguaggio del corpo nelle ore prima di partire per Riad la sera del 3 novembre faceva pensare ad un uomo che stava per dimettersi. Hariri si commuove, e sembra visibilmente scosso. Ciò appare coerente con alcuni elementi emersi in seguito.
Alcuni giorni prima di annunciare le dimissioni, infatti, Hariri era volato a Riad, dove aveva incontrato il ministro degli Affari del Golfo, Thamer al Sabhan. Secondo fonti citate dalla Reuters, Hariri sarebbe rientrato in Libano "molto soddisfatto e rilassato", con l'impressione di aver convinto Al Sabhan sulla necessità di mantenere intatto l'accordo politico con Hezbollah. Al Sabhan, invece, avrebbe apprezzato ben poco le parole di Hariri, congedandolo però senza fargli prefigurare nulla di quel che sarebbe accaduto giorni dopo. Quando Hariri viene "richiamato" a Riad la sera del 3 novembre, quindi, non si aspetta nulla di quel che accadrà qualche ora dopo, tanto più che quello stesso giorno ha incontrato a Beirut - in un colloquio definito dai media "costruttivo e rilassato" - un fidato consigliere della Guida suprema iraniana, Ali Khamenei.
Non è chiaro quanto questo ultimo elemento abbia pesato ma appare assai verosimile che Mohammad bin Salman, il prossimo re saudita, abbia considerato scaduto il tempo per Hariri, dopo un anno esatto di premierato. Anche l'Arabia saudita, come l'Iran, ha infatti fornito il suo appoggio esterno all'accordo di larghe intese che un anno fa ha portato all'elezione di Michel Aoun a presidente della Repubblica e Hariri a guidare un governo che comprende i rivali di Hezbollah.
La strategia di Riad
Il "mandato" accordato da Riad ad Hariri era, evidentemente, quello di contrastare Hezbollah, anzitutto cercando di stimolarne o indurre il loro ritiro dalla Siria, uno dei teatri in cui l'Arabia Saudita ha perso la sua partita geopolitica con Teheran. Hezbollah ha continuato a combattere in Siria, il regime di Assad ha rafforzato la propria posizione, e Salman, già alle prese con la rovinosa guerra in Yemen, avrebbe "richiamato" Hariri, inducendolo alle dimissioni. E aprendo un fronte in Libano, dove i sauditi non hanno mai avuto una vera strategia. Perché costringere Hariri alle dimissioni? Una possibilità è quella di voler così provocare un innalzamento della tensione in Libano, di una tale portata da indurre Hezbollah a prendere il controllo del Paese, oppure semplicemente da esporre la profondità dell'influenza iraniana sul Paese dei Cedri. Ciò, sarebbe potuto essere poi il grimaldello per giustificare una eventuale escalation, anche militare, che Riad avrebbe volentieri "appaltato" a Israele, conscia della sensibilità di quest'ultima all'estensione del potere di Hezbollah.
"Sarebbe", perché l'esca non è stata colta da Nasrallah, che si è schierato da subito tra coloro che chiedevano il rilascio di Hariri, considerato una vittima "umiliata dai sauditi". Rientrato in Libano dopo quasi tre settimane tra Riad e Parigi grazie alla mediazione di Emmanuel Macron, Saad Hariri appare oggi un uomo solo, con una parte della sua famiglia, tra cui due figli, ancora in Arabia Saudita e un futuro personale che gli apparirà ignoto.
Sospendendo le sue dimissioni, darà il tempo al presidente Aoun di avviare le consultazioni con le diverse componenti politiche, per cercare eventualmente un altro potenziale primo ministro tra i politici sunniti e per non bloccare la gestione ordinaria, svolgendo le funzioni di ministro reggente almeno fino alle elezioni parlamentari di maggio 2018. Elezioni che rischiano, come tristemente d'abitudine in Libano, di essere posticipate, perpetuando lo stallo del Paese.
Posticipate come i problemi concreti del Libano, tra cui la gestione dei rifiuti, quella dei rifugiati - 1,5 mezzo di rifugiati siriani su una popolazione totale inferiore ai 5 milioni - e il miglioramento delle infrastrutture, a cominciare dall'approvvigionamento e dalla distribuzione dell'energia elettrica, la cui produzione in Libano copre circa il 65% del fabbisogno nazionale. Sullo sfondo, lo sfumare dell'impegno di Hezbollah in Siria e le crescenti, contestuali tensioni con Israele. Il Libano, per ora, regge.