La Cina ha accolto con tutti gli onori Donald Trump alla sua prima visita da presidente degli Stati Uniti, ma dietro il sorriso migliore sfoderato da Pechino all’uomo che meno di un anno fa sembrava mettere a repentaglio decenni di relazioni diplomatiche tra Usa e Cina, si celano ancora incomprensioni e posizioni diverse sui nodi più duri da sciogliere della relazione bilaterale.
Per compiacere l’ospite di riguardo, la Cina non ha trascurato alcun dettaglio
La preparazione è stata perfetta, forse troppo per alcuni: il Washington Free Beacon parla apertamente di un’operazione studiata a tavolino, dal nome evocativo di “Skyheart”, per ricevere con tutti gli onori Trump in “visita di Stato plus”, come l’ha definita il mese scorso l’ambasciatore cinese a Washington, Cui Tiankai. In ogni caso, l’accoglienza riservata al presidente degli Stati Uniti e alla first lady è stata delle migliori mai sfoderate già all’arrivo in aeroporto. Poi una visita alla Città Proibita, l’antica sede degli imperatori cinesi, con una guida d’eccezione, lo stesso Xi, che aspettava all’interno delle mura l’inquilino della Casa Bianca per prendere un tè. La cena, poi, è stata servita all’interno della stessa Città Proibita, un onore che non era mai stato riservato a nessun presidente Usa dal 1949. Al di là della calorosa accoglienza, però, le cose sono andate diversamente.
La scenografia dei contratti
I progressi sul commercio sono stati “molto piccoli”. La doccia fredda arriva dal segretario di Stato Usa, Rex Tillerson, al seguito di Trump a Pechino. ”C'è ancora molto lavoro da fare", secondo Tillerson, per riequilibrare quel disavanzo commerciale che Trump ha definito “scandaloso” nelle proporzioni a svantaggio di Washington (347 miliardi di dollari a fine 2016).
Il presidente Usa ha dichiarato di non incolpare la Cina per la situazione attuale, ma le passate amministrazioni che hanno permesso una crescita “fuori controllo” del disavanzo commerciale. Anche sui maxi-accordi firmati alla presenza di Xi e Trump nella Grande Sala del Popolo, in piazza Tian’anmen, gli osservatori più smaliziati hanno avanzato dubbi: dei 253,4 miliardi di dollari totali, molti sono riconducibili a contratti non vincolanti, almeno quindici secondo i calcoli dell'agenzia Bloomberg, che potrebbero impiegare anni prima di materializzarsi, e altri si sarebbero firmati anche senza la presenza di Trump a Pechino. Il presidente Usa li ha elogiati lo stesso, al fianco di Xi, nella conferenza stampa finale: “Produrranno posti di lavoro”, ha detto, uno dei mantra che ha ripetuto anche in occasione delle visite in Giappone e Corea del Sud.
Le cifre sono comunque ragguardevoli: China Aviation Supplies Holding ha firmato un accordo da 37 miliardi di dollari per una commessa di trecento aerei dal gigante dell’aviazione Usa, Boeing, destinati a due dei più grandi vettori cinesi, Air China e China Eastern Airlines, anche se non è chiaro quanti di questi ordini siano effettivamente nuovi; il gigante dei semiconduttori Qualcomm ha firmato accordi con tre grandi operatori della telefonia mobile cinese, Oppo, Vivo e Xiaomi; al centro di due delle più grandi commesse ci sono anche due Stati tradizionalmente repubblicani, come l’Alaska e il West Virginia. Quest’ultimo è stato protagonista di un accordo per le infrastrutture nell’energia da 83,7 miliardi di dollari, la cifra più alta nei contratti firmati alla grande Sala del Popolo, e che da sola supera il prodotto lordo dello Stato, che lo scorso anno si è fermato a quota 73,4 miliardi di dollari. Anche in questo caso si tratta di un memorandum d’intesa. Un altro maxi-accordo del valore potenziale di 43 miliardi di dollari coinvolge lo Stato dell’Alaska, il gigante della raffinazione cinese Sinopec, Bank of China e, ancora, il fondo sovrano China Investment Corporation: l’obiettivo è creare fino dodicimila posti di lavoro.
Sulla Corea bottino magro
Sulla Corea del Nord, il bottino di Trump è piuttosto magro. “Ritengo come te che ci sia una soluzione” alla crisi missilistica e nucleare nordcoreana, aveva dichiarato il presidente Usa rivolgendosi a Xi durante l’incontro bilaterale allargato alla presenza degli alti funzionari dei due Paesi.
I toni delle sue parole si sono molto abbassati rispetto alla retorica sfoderata in Giappone o nel discorso all’Assemblea Nazionale, il parlamento di Seul, ma non hanno prodotto un cambio nella linea di Pechino, ribadita da Xi: la Cina vuole la denuclearizzazione attraverso il dialogo con Pyongyang, ha detto in conferenza stampa. Su come raggiungerla non sembrano esserci ancora le idee chiare, ma già al vertice Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) in Vietnam, Xi incontrerà il presidente sudcoreano Moon Jae-in, secondo quanto riferiscono funzionari di Seul, e potrebbero emergere rinnovate intese.
Un turbo alle joint-venture
Le aperture del settore finanziario: forse il primo successo dei colloqui. Già ieri, Xi aveva promesso maggiori aperture del sistema cinese, ma difficilmente ci si poteva aspettare un segnale concreto a così breve distanza. Il vice ministro del Commercio di Pechino, Zhu Guangyao, le ha confermate in via ufficiale. In base alle nuove regole, i gruppi stranieri potranno detenere una quota fino al 51% in joint-venture nelle società che operano nei settori azionario, fondiario e dei future. Il governo prevede anche di rimuovere le restrizioni su proprietà straniere di banche e gruppi di gestione patrimoniale cinesi.
Il consenso sulle nuove mosse, ha precisato Zhu, “è stato raggiunto dai leader di Cina e Stati Uniti” durante l’incontro di ieri. Un bottino in prospettiva molto interessante per i gruppi finanziari americani (e non solo), anche se occorreranno maggiori dettagli in futuro su questa decisione. Il segnale, però, sembra promettente. Xi lo aveva detto chiaramente: la cooperazione è “l’unica via percorribile” per il futuro delle relazioni tra Cina e Stati Uniti.