Mancano pochi giorni all’apertura del Congresso del Partito Comunista Cinese, che sancirà il ricambio di gran parte della classe dirigente. Cinque dei sette membri della cerchia ristretta del potere dell’attuale Comitato Permanente dovranno lasciare il posto per raggiunti limiti di età, ovvero per avere oltrepassato i 67 anni. Tutti tranne il segretario generale, Xi, e il primo ministro, Li Keqiang. Oltre a loro, undici membri del Politburo dovranno lasciare il posto a nuovi dirigenti, sempre per lo stesso motivo. Il 18 ottobre, i 2287 delegati che giungeranno a Pechino avranno il compito di eleggere il nuovo Comitato Centrale, composto di duecento dirigenti. Non solo i giochi di potere, già chiusi e di cui sapremo a breve. Ma il futuro della Cina. Sono questi i temi sui quali ci si interroga.
Nacque a Pechino nel 1953. Il padre, Xi Zhongxun, fu leader della prima generazione: scelto da Mao Zedong come capo della propaganda, divenne vice premier della Repubblica Popolare Cinese, fondata dai comunisti dopo anni di guerra, nel 1949. Al padre di Xi, beffardo fu il destino nella Cina maoista: seppur fervente comunista, esponente dell'ala riformista, venne epurato durante la Rivoluzione Culturale (1966-76). Nel 1969, Xi compiva quindici anni e veniva spedito, come altri 18milioni di cinesi, nelle lontane e poverissime campagne, a rieducarsi. Trascorse sette anni in un villaggio rurale, dormendo in una grotta, nella provincia nordoccidentale dello Shaanxi. Oggi Liangjiahe è meta di pellegrinaggio, con la stessa aura di sacralità che circonda il villaggio natio di Mao, Shaoshan.
La biografia ufficiale risulta impreziosita di dettagli aneddotici, a sottolineare come la dura vita del villaggio forgiò il carattere di colui che la storia avrebbe scelto molti anni dopo per guidare la Cina. Umile, resiliente, vicino al Popolo giacché ne ha conosciuto le sofferenze. Il leader più potente dopo Mao. L’ uomo solo al comando di cui molti temono oggi le derive dittatoriali. Allevava i maiali. Puliva i cessi. Faceva il contadino. Nel tempo libero leggeva – forse tutti ricordato la samizdat contro la censura maoista raccontata nel piccolo romanzo di Dai Sijie “Balzac e la piccola sarta cinese”. Victor Hugo e Hernest Hemingway erano tra i suoi autori preferiti. Lesse “Il Capitale” di Karl Marx almeno tre volte. Forse non è un caso che appena salito al potere abbia esortato allo studio del pensiero marxista nelle scuole.
Potente quasi quanto lo fu Mao
Vita e cuore del Partito da quando la ristretta cerchia degli uomini più potenti lo ha nominato “core” leader, un titolo di cui solo Mao e Deng poterono fregiarsi. Mao, Deng, e Xi: i leader che per la storiografia cinese hanno segnato le tre più importanti fasi della Cina moderna. Xi considera sé stesso discendente diretto di questa stirpe, seppur con importanti distinzioni, e qualche rottura. Dicono che abbia accumulato un potere quasi assoluto, pari solo a quello di Mao. Eppure la Cina di Mao non era la Cina di cui cinque anni fa Xi ha assunto la guida. Deng continua a esserci sotto forma di eredità nella costituzione e nel pensiero del Partito, sebbene Xi abbia compiuto una virata ideologica nel segno di una pacata discontinuità: il “Piccolo Timoniere”, che tanta enfasi aveva dato alla crescita economica, e di cui tutti ricordiamo lo slogan giunto famoso anche in Occidente “arricchirsi è glorioso”, trasformò la Cina in un Paese che cresceva a due cifre, innescando tuttavia, con la sua politica mirata a creare una economia di mercato, e rimosso il dissenso politico dopo il 4 giugno con un patto sociale che in qualche modo dura tuttora (ricchezza in cambio di consenso), le distorsioni che attanagliano la Cina di oggi: la disparità di reddito, l’inquinamento, il debito pubblico, le bolle speculative, la corruzione. Jiang Zemin e Hu Jintao hanno proseguito nel percorso dettato da Deng.
Il cambio di rotta: sì alla crescita di qualità
Xi, no: ha cambiato rotta, e ha spostato l’attenzione dall’economia al Partito. Frenando le riforme politiche accennate nel decennio precedente – Hu Jintao-Wen Jiabao - in quel ciclo di alternanza tra chiusure e aperture che caratterizza una macchina amministrativa che oggi conta 90 milioni di membri. Xi ha rimesso al centro il Partito, indebolito da una corruzione endemica (1 milione e 400 mila funzionari sotto indagine). Lo ha salvato. La Cina studia, impara dagli errori, propri e altrui. La disintegrazione dell’ex Unione Sovietica è l’incubo da scongiurare. Ha ridimensionato la crescita economica, puntando su una crescita di qualità: l’obiettivo è di raggiungere una società moderatamente prospera (entro il 2020). Alla continua ricerca del consenso (il “mandato celeste”), affinando il metodo per preservare la stabilità sociale, il potere del Partito, per Xi, è tutto.
Il pensiero politico è del resto la materia che conosce meglio: dal 2008 al 2013 è stato capo della Scuola Centrale del Partito – organo importantissimo per la formazione della classe dirigente. Ai funzionari di tutti i livelli viene richiesta lealtà assoluta. Il leader cinese ha promosso nella catena di comando i suoi alleati – anche all’interno del potentissimo Esercito Popolare di Liberazione. Ha indebolito la Lega della Gioventù – la fazione connessa a Hu Jintao. Vuole al suo fianco dirigenti che condividano i suoi stessi valori. Spariti i riferimenti al club dei "principi rossi", il termine con cui genericamente si indicano i figli dell'aristocrazia comunista che hanno partecipato alla rivoluzione guidata da Mao Zedong. Non bastano le inchieste del New York Times e Bloomberg sulle ricchezza della casta cinese. Al mondo, e al suo popolo, è un altro il volto che Xi vuole offrire: quello del leader dalla postura frugale.
Compiuti gli esercizi di rieducazione nelle campagne, la sua storia continua a Pechino. Nel 1975 si iscrive a ingegneria chimica. Inizia presto la sua carriera come quadro del partito, nelle province del Fujian e dello Zhejiang. Nel 2007 diventa leader di Shanghai, una posizione che lo proietta verso una poltrona del potentissimo Comitato Permanente. Tra il 2012 e il 2013 succede a Hu Jintao come segretario generale del Partito, presidente della Commissione Militare Centrale e presidente della Repubblica. Non era mai accaduto che un leader ereditasse le tre cariche in un colpo solo.
Il senso della Cina per Xi
Il senso della Cina per Xi Jinping? Rimetterla al centro del mondo. Lo slogan che ha contraddistinto l’avvio del suo primo quinquennio al potere, il “Sogno cinese”, parla della grande rinascita per una nazione che ha subito il lunghissimo secolo di umiliazione inflitto dalle potenze straniere. L’Impero saccheggiato a partire dalle Guerre dell’Oppio. Invaso e sconfitto. Mao lo ha riconquistato, lo ha unificato. Oggi Xi vuole riportarlo al centro proponendo una globalizzazione sinocentrica. Il principio del Tianxia, antico quanto gli imperatori. Ne abbiamo avuto un assaggio a Davos, quando agli occhi del mondo Xi divenne l’alfiere della globalizzazione, mentre Trump iniziava a tirare su muri. La Cina non vuole più avere un profilo basso in politica estera – altro elemento di diversità rispetto a Deng. Dalla Corea del Nord, dove esercita prudenza, al Mar Cinese Meridionale, dove si muove assertiva, talvolta arrogante, ribadendo una sovranità – dice Pechino - dettata dalla storia. Una storia che il Partito riscrive, oscurando le pagine scomode e dolorose, fagocitando quel meccanismo di rimozione che caratterizza la popolazione cinese che per vergogna, o per praticità, dimentica le vittime del 4 giugno 1989 e non parla della Rivoluzione Culturale, di cui i millennial nulla o poco sanno: quando si confrontano con i compagni di corso nelle università internazionali, che in massa frequentano, non hanno elementi di dibattito. Sono privi di memoria.
Il recupero della tradizione confuciana
Eppure è proprio sul recupero della memoria che Xi Jinping ha costruito il suo potere. La retorica ufficiale è ricca di richiami storici e letterari. Un recupero che spiega il rapporto dei cinesi con il proprio passato, che è poesia, scrittura sui rotoli, non di certo pietra, più volte demolita. Un recupero necessario dopo gli anni bui in cui le guardie rosse bruciarono i simboli della cultura classica; cancellate le memorie individuali e collettive, profanate le tombe, distrutti gli album di famiglia. L’operazione di Xi consiste nell’unire i valori del nazionalismo e del marxismo-leninismo-maoismo, mescolandoli con il recupero della tradizione confuciana. E tra qualche giorno il suo pensiero, raccolto nei suoi scritti, potrebbe essere inserito nella Costituzione. Con il suo nome stampato sopra. Cosa dice il suo pensiero.
Le domande che il mondo si pone
Le domande più aperte riguardano la possibilità che nomini un erede per il 2022 (in caso contrario romperebbe con la tradizione) e la decisione di mandare o meno in pensione Wang Qishan, lo zar dell’anti-corruzione cinese. Wang, 69 anni, ha raggiunto l’età del pensionamento, ma da tempo circolano voci su una possibile eccezione nei suoi confronti. In entrambi i casi, si tratterebbe di una eccezione a conferma del carattere assoluto che ha assunto il potere di Xi.
Mantenere l’ordine sociale a tutti i costi lo ha portato a incarcerare numerosi dissidenti e avvocati per i diritti umani. Ha lasciato morire in modo indegno il premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo. Del destino della vedova, la poetessa Liu Xia, non si hanno notizie certe.
La censura su internet e nel campo dell’editoria non è mai stata così stringente. Eppure, mai nessun leader sembra abbia goduto di un consenso tanto forte. Il Popolo sta con Xi. Il Partito ha sempre avuto la capacità di adattarsi, di prevenire il nascere di virus interni alla società civile, con i classici metodi di repressione preventiva accompagnati da incredibili aperture, soprattutto in campo economico. Xi ha fatto della lotta alla povertà un punto fermo: vuole estirparla del tutto entro il 2020, con dieci anni di anticipo rispetto al target fissato dalle Nazioni Unite. Del resto la Cina, insiste la propaganda, ha sollevato dalla povertà 800 milioni di persone negli ultimi trent’anni. Il volto umano, vicino alle disgrazie, che piace alla gente comune; di chi sa cosa significa vivere emarginati, in un Paese in trasformazione dove i mingong (i migranti interni) non hanno ancora diritti quando si trasferiscono nelle città a lavorare, e quando tornano a casa hanno perso radici, e di chi perde la casa in seguito all’ennesima demolizione, per fare spazio all’ennesimo centro commerciale, e finisce a vivere sottoterra, andando a popolare quella “tribù dei ratti” di cui parla Yu Hua nel suo ultimo romanzo “Il Settimo giorno” (Feltrinelli, 2017).
Leader dell'innovazione
I mille volti di Xi, i mille volti della Cina. E’ con la guida della stessa leadership che il Paese sta diventando leader dell’innovazione, investendo sempre più soldi nella strategia Made in China 2025. Eppure, dicono i detrattori, le riforme in questi cinque anni non hanno fatto altro che languire. La riforma delle aziende pubbliche, improduttive e indebitate, non è mai davvero iniziata. All’inizio del primo mandato, si diceva: Xi deve prima serrare i ranghi all’interno del Partito, ripulirlo, accumulare un potere incontrastato. E così passare alla seconda fase: toccare le riforme più impopolari, quelle che rischiano in molti casi di creare malcontento sociale: dismettere le aziende statali significa confrontarsi con lo spinoso tema dei licenziamenti.
La Via della Seta è l’arma più potente che Xi ha nelle sue mani. Torniamo al Paese orgoglioso che cerca un riscatto definitivo dal Secolo che lo ha visto umiliato. Una iniziativa internazionale condivisa, e inclusiva, di cui l’America non è stata più capace dai tempi del piano Marshall, e che con 900 miliardi di dollari sta cambiando l’economia euroasiatica.
Xi che da ragazzino allevava maiali è oggi il leader che cambia la Cina, e il mondo intero. Il 18 ottobre capiremo, forse, meglio come.
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