Prima il blocco dell’account Facebook, poi la cancellazione di un evento in cui avrebbe parlato di corruzione e politica in Cina. Guo Wengui, il ricercato numero uno dalla Cina, che punta a boicottare il Partito Comunista Cinese, trova sempre meno spazio per esternare le sue opinioni e le sue accuse nei confronti degli alti dirigenti di Pechino, che da mesi accusa di corruzione. Guo, che vive a New York, è di recente volato a Washington per partecipare a un evento organizzato dal think-tank Hudson Institute solo per scoprire, all’ultimo momento, che l’evento era stato rimandato, senza, apparentemente, una ragione valida.
L’evento, scrive il Wall Street Journal, sarebbe stato “mal programmato”, e, in via non ufficiale, l’Hudson Institute avrebbe fatto capire che non era in linea con le posizioni del think-tank di Washington. L’evento, previsto per martedì scorso avrebbe coinciso con la visita negli Usa di una delegazione guidata dal ministro della Pubblica Sicurezza di Pechino, Guo Shengkun, impegnato in colloqui di alto livello sulla sicurezza, tra cui quello con Elaine Duke, facente funzione di segretario per la Sicurezza Interna. Con i suoi interlocutori, Guo ha discusso di contrasto al terrorismo, alla criminalità trans-nazionale e al narcotraffico, di lotta contro i crimini informatici e della cooperazione sulla questione dei fuggitivi, un tema che riguarda da vicino proprio il caso di Guo Wengui, e di almeno un altro ricercato di alto profilo, di cui si sono recentemente perse le tracce.
Il caso Ling Wancheng
A turbare i sonni dei leader cinesi concentrati sul prossimo Congresso del Partito Comunista Cinese, la cui apertura è prevista per il 18 ottobre prossimo, c’è anche un altra vicenda, meno nota, quella legata a Ling Wancheng. Ling è il fratello di una delle vittime di più alto profilo della lotta alla corruzione in Cina e vive in California da oltre due anni, da quando cioè si erano diffuse le voci che le indagini per corruzione ai danni del fratello, Ling Jihua, segretario personale dell’ex presidente, Hu Jintao, avrebbero coinvolto anche membri della sua famiglia. Ling, secondo alcune indiscrezioni risalenti allo scorso anno, avrebbe rivelato alcuni segreti di Stato agli americani, tra cui i codici segreti di accesso alle armi nucleari di Pechino, dettagli sulla vita privata dei leader e sul blindassimo compound diplomatico di Zhangnanhai, il Cremlino cinese. Ling, attraverso il suo avvocato ha smentito le indiscrezioni, ma la presenza su suolo Usa del fratello di un ex alto dirigente cinese, condannato all’ergastolo per corruzione, abuso di potere e per essere entrato illegalmente in possesso di segreti di Stato, è un tema molto delicato, che imbarazza Pechino.
I legami di Guo con lo spionaggio e i cyber-attacchi
Il caso Ling Wancheng non sembra, però, prioritario, almeno non quanto quello legato al miliardario che ha fatto fortuna nel real estate e che, almeno in passato, poteva contare su una stretta collaborazione con uno dei capi dello spionaggio di Pechino, Ma Jian, ex-vice ministro della Pubblica Sicurezza, dall’inizio del 2015 sotto indagine per il sospetto di avere ricevuto tangenti. Il legame tra Guo e Ma, fatto di scambi di favori dietro compenso che prevedevano anche intimidazioni, pedinamenti, minacce e intercettazioni telefoniche, è stato rivelato ad aprile scorso dallo stesso Ma Jian in un controverso video pubblicato dal Beijing News, a pochi giorni di distanza dall’allerta rossa emanata dall’Interpol nei confronti della stesso Guo. Il miliardario in fuga dalla giustizia cinese deve rispondere di venti reati e, secondo quanto scriveva la Associated Press, una delle sue principali occupazioni in questo momento è quella di cercare di evitare l’estradizione in Cina. Nessun trattato tra Pechino e Washington la prevede, ma Guo è convinto che le pressioni di Pechino sugli Usa potrebbero renderlo una moneta di scambio appetibile per l’amministrazione guidata da Donald Trump.
A rendere il quadro ancora più fosco per lo stesso Guo c’è anche l’oscuramento, avvenuto nei giorni scorsi del suo profilo e di un’altra pagina a lui legata su Facebook, proprio mentre sarebbe stato pronto a nuove rivelazioni sui politici cinesi e sui loro affari. Rivelazioni che sarebbero cadute a poche settimane dall’attesissimo Congresso del Partito Comunista Cinese che, con ogni probabilità, consoliderà ulteriormente il potere del segretario generale, Xi Jinping, al vertice del partito e dello Stato. La risposta di Pechino alle accuse di corruzione di Guo Wengui sarebbe arrivata non solo tramite i media, ma anche attraverso lo strumento del cyber-spionaggio. Alcuni hacker legati alla Cina, scrive il Washington Free Beacon, avrebbero sottratto documenti riguardanti l’immobiliarista dai server dello studio legale Clark Hill di Washington, che rappresentava fino a poco tempo fa Guo Wengui. Lo stesso Guo avrebbe lamentato di recente di essere sotto attacco informatico, ed entrambi i casi di hackertaggio sarebbero collegati alla richiesta di asilo politico negli Usa, presentata da Guo il 6 settembre scorso.
Spaccare la leadership: l’obiettivo di Guo
L’irrequietezza di Pechino rispetto alla figura di Guo Wengui, o Miles Kwok, come è noto on line, è dovuta soprattutto alle sue accuse. Il suo nome è diventato noto a livello internazionale all’inizio del 2017 con due interviste rilasciate a media in lingua cinese che operano negli Stati Uniti. Le accuse lanciate da Guo, di pressoché impossibile verifica, prendevano di mira nomi molto in alto nella gerarchia di Pechino, tra cui lo stesso Wang Qishan, il potentissimo capo della Commissione Disciplinare, l’organo che dà la caccia ai corrotti. Secondo il tycoon cinese, Wang avrebbe effettuato investimenti segreti nell’immobiliare per milioni di dollari in California sin dagli anni Ottanta. Le accuse di Guo aprono addirittura a scenari ritenuti pressoché impossibili, cioè a un rottura tra il presidente cinese, Xi Jinping, e il suo braccio destro nella lotta alla corruzione, Wang Qishan, appunto: le frecciate contro Wang, braccio destro di Xi nelle alte sfere, potrebbero mettere in dubbio la figura del capo della Commissione Disciplinare, ma intaccare anche il ruolo dello stesso Xi, ritenuto generalmente il più potente leader cinese degli ultimi trenta anni.
Lo scenario che si aprirebbe potrebbe avere effetti nocivi alla leadership del Pcc ed esporre lo stesso Xi agli attacchi delle fazioni avverse all’interno del Partito Comunista Cinese, una eventualità che, oggi, a meno di due settimane dall’inizio del Congresso, nessun analista si sentirebbe di prendere sul serio in considerazione. A sostenere la loquacità di Guo ci sarebbe una delle fazioni più forti all’interno del partito (esclusi i fedelissimi di Xi) cioè quella che fa capo all’ex presidente, Jiang Zemin, secondo quanto scrive Foreign Affairs. Guo ha smentito la rivista Usa e sostiene di volere una Cina democratica, ma rimane il fatto che a sostegno delle sue parole non ci sarebbero prove effettive. Anche la sorte di Wang Qishan, uno degli interrogativi più appassionanti per i “China watchers”, potrebbe non chiarire definitivamente la questione: Wang, 69 anni, è già oltre la soglia del pensionamento prevista per i leader del Pcc (68 anni, secondo la consuetudine) e un suo ritiro dalla vita politica potrebbe non significare necessariamente un dissidio all’interno della leadership, ma solo un normale avvicendamento.
Qualunque sia l’obiettivo di Guo Wengui, il suo caso ha riaperto la questione della stabilità della leadership all’interno del Partito Comunista Cinese. Se all’apparenza il vertice del Pcc è saldo come non accadeva da decenni, le accuse di un miliardario in fuga da Pechino (dove dovrebbe rispondere di venti reati di varia natura) sembrano ancora una volta mettere in discussione gli equilibri di potere all’interno del partito più grande del mondo (89,4 milioni di membri, all’ultimo calcolo). Per avere una risposta sulla fondatezza di questi dubbi, occorrerà aspettare ancora due settimane, quando a Pechino si aprirà, alla presenza dei 2287 delegati che arriveranno nella capitale, il diciannovesimo Congresso del Partito Comunista Cinese.