Tra Donald Trump e le star del basket Nba è cominciata una sfida a colpi di tweet dai toni aspri e velenosi. "I Golden State Warriors non sono i benvenuti alla Casa Bianca", ha scritto il numero uno della Casa Bianca dopo che Stephen Curry aveva dichiarato di non voler partecipare alla visita dei campioni Nba al presidente degli Stati Uniti. Il gesto di Curry è solo l'ultimo di una lunga serie di critiche e commenti negativi arrivati da altri campioni del basket e del baseball americano al presidente, non gradito per i suoi modi e i suoi toni. "Andare alla Casa Bianca è considerato un grande onore per ogni squadra campione. Stephen Curry sta esitando, quindi l’invito è ritirato". Se l'è presa molto Trump, acuendo di fatto uno scontro che adesso sarà molto difficile da ricucire.
Lontani i tempi delle pacche sulle spalle con Barak Obama
Scrive La Stampa: "Per chi vince il titolo nei principali sport di squadra americani – basket, football, baseball e hockey – le congratulazioni del presidente sono una tappa obbligatoria da addirittura 160 anni, quando il rito venne inaugurato dal baseball. Un rito che spesso ha portato le squadre campioni direttamente alla Casa Bianca. Nell’era di Barack Obama, le visite delle squadre Nba avevano raggiunto il punto più alto, con l’allora presidente – grande appassionato di basket ed ex giocatore – a scambiare numerose battute con i protagonisti. L’elezione di Trump, invece, ha unito il pianeta Nba in una posizione avversa, se è vero che è quasi impossibile trovare una voce a favore del nuovo presidente, e da subito la visita alla Casa Bianca dei campioni è stata considerata a rischio".
Lo strappo dei Warriors
I Warriors sono la squadra da battere dal alcune stagioni in Nba, e già all'indomani dell'ultimo titolo vinto prima dell'estate alcuni giocatori avevano espresso una posizione di rifiuto di fronte all'invito della Casa Bianca che sarebbe arrivato a settembre, come puntualmente è avvenuto. "Se dovessimo mettere il viaggio alla Casa Bianca ai voti, io opterei per il no" aveva spiegato Curry. La risposta di Trump non si è fatta attendere ve non è stata per niente conciliante, né efficace il tentativo di mediazione portato avanti dallo staff del presidente con la società.
Il campione NBA tre volte ha postato un video di due minuti su Uninterrupted.com, uno spettacolo dedicato a dare agli atleti una piattaforma per parlare le proprie menti, in cui ha criticato Trump, dicendo che "ha cercato di dividere ancora una volta". "Non voglio andare", ha detto Curry alla stampa venerdì. "Le mie convinzioni rimangono le stesse". E più tardi anche Kobe Bryant, indimenticata stella dei Lakers, si è unito ai colleghi: "Un presidente il cui nome evoca rabbia e divisione, le cui parole ispirano dissenso e odio, non renderà l'America Great Again".
Al Tweet di Curry è seguito quello di un altro leggendario giocatore, Lee Bron James, stella e capo carismatico dei Cleveland Cavaliers: "Steph Curry ha detto che non andrà, quindi tu hai ritirato l’invito. Ma andare alla Casa Bianca era un grande onore prima che arrivassi tu". Ancora: "Ora sta usando lo sport come piattaforma per cercare di dividere noi", ha detto James. "Per lui cercare di utilizzare questa piattaforma per dividere ancora di più non è qualcosa che posso sopportare e non è qualcosa che posso stare tranquillo". James ha terminato il monologo incoraggiando "a tutti, perché non si tratta di una divisione, non è la divisione, ma come popolo americano dobbiamo unire ancora più forte".
Scoppia la bufera anche nel baseball
Non solo. Dopo le star dell'Nba ci si sono messi quelli del baseball del Nfl. Scrive la Gazzetta dello Sport: Trump venerdì sera aveva suggerito ai proprietari dei team di licenziare i giocatori che si inginocchiano durante l'inno, in segno di protesta per il trattamento ricevuto dalle persone di colore da parte della polizia, e ai tifosi di uscire dallo stadio in segno di protesta. Il Commissioner Nfl, Roger Goodell, ha risposto che le dichiarazioni del presidente sono "divisive e mostrano una mancanza di rispetto per la Nfl". Oggi si è unito anche il presidente dei giocatori della Lega, DeMaurice Smith, dicendo che nessuno dovrebbe essere costretto a "scegliere un lavoro che chieda di sacrificare i propri diritti di opinione". Smith, in una nota, ha aggiunto che le manifestazioni di dissenso sono come dei discorsi muti che hanno poi generato "discussioni e riflessioni negli spogliatoi". Smith conclude: "La linea di demarcazione che tutela i diritti di ogni cittadino viene violata quando qualcuno dice: Chiudi il becco e gioca".