Dopo le rivelazioni del New York Tims giunte in contemporanea con la decisione del governo italiano di riaprire l’ambasciata al Cairo, torna di strettissima attualità il caso Regeni, il ricercatore torturato e ucciso in Egitto tra gennaio e febbraio dello scorso anno.
Il retroscena del ritorno dell'ambasciatore al Cairo
Su Repubblica una fonte della Farnesina spiega la necessità di rimandare l’ambasciatore Giampaolo Cantini in Egitto. “Il nostro isolamento rischiava, se prolungato, di provocare danni – spiega -. Non solo per quanto sta accadendo in Libia ma soprattutto nei confronti della nostra comunità al Cairo e nella ricerca della verità su Regeni". Il quotidiano romano rivela un retroscena, la lettera di incarico del governo all’ambasciatore: Cantini arriverà al Cairo affiancato da una figura specifica che gestirà la cooperazione giudiziaria e investigativa con la procura generale del Cairo. Non è ancora stato deciso se si tratterà di un magistrato o di un ufficiale di polizia giudiziaria.
Viene confermato poi l'ordine del giorno del settembre 2016 che blocca ogni fornitura gratuita di materiale bellico al regime di Al Sisi. Resta congelato sine die - come si legge ancora dalla lettera di incarico - il business council italo-egiziano. Verrà mantenuta l'allerta sul sito istituzionale della Farnesina e saranno aumentati i progetti di cooperazione e sviluppo con l'Egitto con oggetto il rispetto dei diritti umani e la parità di genere. C'è infine - spiega ancora la fonte della Farnesina - il capitolo della "memoria" che "non sarà rituale". Sarà intitolata al ricercatore italiano la futura università italo- egiziana e l'auditorium dell'istituto di cultura. Il 25 gennaio, data della scomparsa di Giulio, sarà istituito il giorno della memoria in tutte le nostre sedi istituzionali in Egitto.
L'avvocato egiziano: "Nessuna cooperazione"
Il Corriere della Sera intervista Ahmed Abdallah, presidente del consiglio d’amministrazione della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, Ong che offre consulenza ai legali della famiglia di Giulio Regeni. Arrestato il 25 aprile 2016, Abdallah è rimasto in carcere per 4 mesi e mezzo con l’accusa di aver partecipato all’organizzazione di proteste che miravano a rovesciare il regime. La sua opinione sulla decisione di rimandare l’ambasciatore italiano al Cairo è nettamente negativa, al pari della famiglia Regeni. Si parla di progressi nelle indagini e di “rinnovata cooperazione” tra inquirenti, ma Abdallah ha pochi dubbi: “Non c’è nessuna cooperazione”. Il procuratore generale Nabil Ahmed Sadek, che dovrebbe garantire la giustizia in Egitto, spiega l’avvocato, “ha rifiutato finora di consegnarci il fascicolo sull’uccisione di Giulio e ha bloccato ogni tentativo legale di ottenerlo. La famiglia non ha avuto nessuno degli atti – aggiunge -. Non sappiamo nemmeno se quelli inviati agli inquirenti italiani siano un riassunto dell’inchiesta oppure gli originali. Penso che dovremmo vedere i documenti. Comunque, sulla base di quello che abbiamo visto sinora, mi aspetto che il fascicolo sia pieno di bugie”.
Renzi: "Obama non mi ha detto nulla"
Sulla Stampa si parla, invece, delle rivelazioni del New York Times, di quelle “prove esplosive” del coinvolgimento dei servizi segreti nell’omicidio Regeni che Obama avrebbe consegnato a Matteo Renzi. Il quotidiano di Torino cita l’ex premier che avrebbe detto al suo successore, Paolo Gentiloni: “Lo sai, con Obama, ci siamo visti tante volte, abbiamo parlato anche dal caso Regeni, ma mai una volta il presidente degli Stati Uniti mi ha fatto rivelazioni o fornito documenti. Né ha mai sentito il bisogno di metterci in allerta”. E anche Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri del governo Renzi, a suo tempo, parlò del caso col suo omologo di allora, il segretario di Stato John Kerry, ma anche in questo caso senza mai ricevere elementi di fatto e tantomeno “prove esplosive”. E soprattutto – sottolinea ancora La Stampa - non furono suggerite tracce che fossero diverse da quelle già in possesso dei Servizi italiani.
Necessità di normalizzare i rapporti
La decisione di inviare l'amasciatore nuovamente al Cairo è giustificata da Palazzo Chigi con la necessità di 'normalizzare' i rapporti con l'Egitto dopo un anno e mezzo di ferri corti dovuti all'omicidio del ricercatore italiano. "Vogliamo tutta la verità sulle responsabilità di apparati dello Stato egiziano nella morte di Giulio", hanno sempre detto ministri e premier italiani in questi mesi. I silenzi ricevuti avevano portato al ritiro dell'ambasciatore dal Cairo. Prima di Ferragosto la notizia del reinvio di un nostro diplomatico (leggi anche l'articolo del Sole 24 ore) a fronte di nessuna sostanziale novità sul fronte delle indagini (anche se la procura di Roma che indaga sul caso ha parlato di "passi avanti" sul fronte della collaborazione con le autorità egiziane). Poi, a Ferragosto, la bomba sganciata dal quotidiano americano, che ha prodotto migliaia di commenti sulla rete, tra i quali, naturalmente, quello sgomento della famiglia di Giulio (leggi su questo l'articolo dell'HuffPost).
I nodi che restano aperti
Una nota che non spegne le polemiche. Il Corriere della sera mette in fila i punti scoperti portati alla luce dal quotidiano di New York:
- l’inchiesta spiega che le «prove esplosive» non furono passate dall’amministrazione americana al governo italiano, ma rivela che quelle prove esistono. Dal canto suo, Palazzo Chigi non smentisce, ma conferma quanto effettivamente scritto dal quotidiano: gli «elementi di fatto» non furono inviati da Washington a Roma;
- nella nota delle «fonti» del governo italiano si sottolinea come «la collaborazione» investigativa tra Usa e Italia sia completa: un modo per smorzare ogni polemica;
- i rappresentanti governativi americani citati dall’articolo dicono che non fosse chiaro «chi» avesse dato l’ordine di catturare e «presumibilmente» di uccidere Regeni: una frase che indica che le prove in possesso degli Stati Uniti non siano in grado di chiarire né la responsabilità ultima, personale, dietro la decisione di rapire Regeni, né di indicare in modo incontrovertibile quale agenzia di sicurezza e intelligence lo abbia torturato e ucciso, né se la sua morte venne «decisa» o fu il risultato delle violentissime torture subite;
- anche se non lo nomina esplicitamente, sembra che la fonte citata dal New York Times alluda ad Al Sisi e a membri del suo governo quando spiega che a sapere che cosa fosse successo a Regeni fosse «the very top», il vertice supremo dello Stato (usando il pronome «they», «loro»).