Nei giorni scorsi è stata fatta molta ironia sul comizio del 19 febbraio nel quale Donald Trump, in Florida, aveva citato la Svezia tra i Paesi europei che avevano subito le conseguenze più drammatiche del forte afflusso di richiedenti asilo. “Avete visto cos’è successo la notte scorsa in Svezia?”, aveva detto il presidente degli Stati Uniti, riferendosi a un servizio di Fox News (poi rivelatosi infondato) e parlando di “grandi numeri” di rifugiati accolti dalla nazione scandinava e dei “problemi che non credevano possibili” che gli svedesi stanno affrontando con la gestione del fenomeno. “Che si è fumato?”, aveva scherzato l’ex primo ministro svedese, Carl Bildt. In realtà Trump aveva torto solo su quella notte precisa, nella quale nulla di grave risultava accaduto in Svezia, né un attentato, né altro. Ma che l’accoglienza disordinata e la mancanza di un sistema di integrazione funzionante abbiano reso Stoccolma un modello in negativo è verissimo. Ma ammetterlo, per un Paese che si autodefinisce "superpotenza umanitaria", è molto difficile.
Appena la notte dopo, una rivolta esplode a Rinkeby, sobborgo di Stoccolma soprannominato "Piccola Mogadiscio" per la forte presenza di immigrati, soprattutto di origine somala, dove non mancano "reclutatori" vicini a organizzazioni jihadiste come Al-Shabaab. La miccia che fa accendere i tumulti è il tentativo della polizia di arrestare un sospetto spacciatore, la stessa dinamica che spesso incendia le banlieu parigine. Gli agenti vengono bersagliati con pietre e mattoni. Uno di loro resterà ferito. Uomini con il volto coperto da un passamontagna danno fuoco alle auto e saccheggiano i negozi. Alcuni cittadini che cercano di fermare la razzia, scrive il Telegraph, vengono assaliti a loro volta. E Trump si prende la rinvincita sul suo social network preferito.
"Tutto quello che ha detto Donald Trump è vero", ha raccontato un testimone alla Cnn, "l'immigrazione è fuori controllo. Sono molti e non c'è posto per loro. Il vero problema sono i rifugiati. Vengono qui e credono di poter fare quello che vogliono".
La polveriera di Stoccolma
Rinkeby è una delle 53 "aree vulnerabili" menzionate lo scorso anno in un rapporto della polizia svedese, zone , si legge sul sito del governo di Stoccolma, che "sono diventate sempre più colpite dal crimine, dall'insicurezza e da sommosse sociali". Il governo rifiuta la definizione di "no go zone" utilizzata dalla pubblicistica di destra ma ammette che "in alcune di queste aree la polizia ha incontrato difficoltà a svolgere il proprio dovere". Non è infatti certo la prima volta che Stoccolma si ritrova teatro di rivolte e scontri tra gang. Nel 2010, sempre a Rinkeby, centinaia di giovani tennero d'assedio per due notti la stazione di polizia, tra incendi e sassaiole. Le rivolte più violente avvenero però nel maggio 2013 a Husby, un altro quartiere della capitale caratterizzato dalla forte presenza di immigrati di origine africana o mediorientale. Per cinque giorni centinaia di automobili vengono bruciate, costringendo all'evacuazione di un intero isolato, un centro commerciale viene devastato, un ristorante viene incendiato e i pompieri intervenuti a spegnerlo vengono aggrediti, una fermata della metropolitana finisce sotto attacco e i treni vengono devastati. Alcuni dei rivoltosi fermati dalla polizia hanno tra i 12 e i 15 anni.
Violenza tra gang a Malmo
La situazione è ancora più tesa a Malmo, la città portuale che è spesso il primo punto di arrivo per chi chiede asilo in Svezia. "Nel giorno in cui arrivai, un ragazzo di ventitré anni era stato ucciso nella piazza principale della città con un colpo di pistola alla testa in fronte a diversi testimoni", racconta il reporter del Telegraph, "era il terzo omicidio di quel genere in sei settimane. La stampa locale tende a non riportare l'etnia della vittima o dei sospetti ma gli svedesi hanno imparato a riconoscere i crimini legati alle gang di immigrati quando li vedono. Gli stranieri che visitano la parte sbagliata della Svezia possono pagare un prezzo alto: la scorsa estate un ragazzo britannico è stato ucciso da una granata a Goteborg mentre dormiva con la sua famiglia". I politici svedesi tendono però a negare il problema, affermando che sia tutto sotto controllo. Un atteggiamento che non fa che favorire i partiti nazionalisti come gli Svedesi Democratici, che hanno ormai il sostegno di un elettore su cinque.
Quella stampa reticente che infiamma la xenofobia
Le ragioni di un fallimento e la lezione dell'Italia
Prima del recente giro di vite, la Svezia era il Paese europeo che accoglieva più rifugiati in assoluto rispetto alla popolazione. Solo nel 2015 oltre 160 mila persone (in arrivo principalmente da Iraq, Siria e Afghanistan) sono giunte in Svezia per chiedere asilo, un numero enorme per una popolazione residente di appena dieci milioni di abitanti. Stoccolma è fiera della sua immagine di patria dei diritti civili. Un dibattito concreto sulle conseguenze dell'immigrazione di massa è quindi difficile e a provarci si rischia di essere bollati come razzisti. Ma non si possono accogliere grandi masse di immigrati provenienti da culture distanti senza avere la minima idea di come integrarli, relegandoli in ghetti preda di emarginazione e disoccupazione. Già, perché a tanta alienazione contribuisce l'impossibilità per la manodopera straniera non qualificata di trovare un lavoro nel Paese scandinavo. A causa delle barriere linguistiche e di un mercato del lavoro fortemente regolato, la Svezia è il Paese europeo dove un immigrato ha le maggiori probabilità di restare disoccupato. Se tra gli svedesi il tasso di disoccupazione è il 4%, tra gli stranieri residenti in Svezia il dato è al 22%. Non esiste un altro paese sviluppato con un differenziale così elevato, sottolinea l'Ocse nel suo Immigration Outlook 2016. Nel Regno Unito non esiste il minimo gap. E il differenziale è minimo in due nazioni sottoposte a ingenti flussi come la Grecia e l'Italia, che nonostante la crisi economica, sono secondi in Europa solo a Londra come capacità di integrare gli stranieri nel mercato del lavoro. Forse è tempo che Stoccolma ceda a Roma quella bandiera di "superpotenza umanitario" che ama tanto sventolare.