Luca Vinciguerra
SHANGHAI. Dal nostro corrispondente
La terra a chi la lavora. Il vecchio slogan, caro ai contadini in ogni angolo del pianeta, torna a circolare per la Cina, tra le centinaia di milioni di agricoltori che vorrebbero avere la proprietà dei loro appezzamenti. È tornato di moda anche tra i pronipoti di Mao (che la terra ai contadini la promise più volte, ma senza dargliela mai), per i quali da qualche tempo la "questione agraria" è diventata una priorità strategica.
Non è un caso, quindi, che la riforma agraria sia il tema centrale del plenum del Comitato centrale del Partito comunista, in corso in questi giorni a Pechino. Dopo anni di indugi e tentennamenti, la leadership cinese ha compreso che è giunta l'ora di sciogliere uno degli ultimi grandi nodi che ancora bloccano lo sviluppo economico del Dragone: la proprietà della terra. È un nodo grosso e ingarbugliato per un sistema politico che, privatizzando la terra, commetterebbe l'ennesima abiura de facto dell'ideologia maoista.
Ma Pechino deve fare una scelta, perché la situazione nelle campagne sta progressivamente degenerando. E, fin dai tempi degli imperatori, l'ultima cosa che un governante cinese desideri è una rivolta contadina. Oggi in Cina l'agricoltura impiega il 42% della forza lavoro nazionale. Ma la stragrande maggioranza dei contadini è insoddisfatta, perché fa un lavoro duro, che spesso non consente neppure di sopravvivere. Perché, in molti casi, è sfruttata e vessata dalla burocrazia locale corrotta. E perché, non godendo di alcun diritto di proprietà sulla terra, il suo futuro è incerto.
Naufragata tragicamente l'esperienza delle "comuni agricole", la riforma agraria del 1978 concesse il diritto di coltivare la propria terra e di goderne i frutti a oltre 700 milioni di contadini. Queste concessioni pubbliche furono stabilite della durata compresa tra 25 e 30 anni. Ciò significa che tutte le "licenze" rurali emanate dal demanio cinese (la proprietà della terra è rimasta del Governo centrale o di quello locale) tra il 1978 e il 1982 stanno andando in scadenza. Che fare? Dopo un lungo e agguerrito dibattito interno, anche il Partito sembra essersi convinto che c'è una sola via d'uscita: assicurare ai contadini una qualche forma di diritto reale sulle terre. «Serve una riforma - dice il rappresentante di una Ong - che dia finalmente agli agricoltori cinesi delle certezze. Solo avendo la garanzia giuridica di poter alienare o trasferire, in affitto o in eredità, le coltivazioni su cui lavorano, i contadini potranno investire sulle loro terre, consentendo lo sviluppo di quella parte del Paese che finora è rimasta indietro».
Ora spetterà ai legislatori architettare la formula tecnico-giuridica più consona per evitare l'ennesima sconfessione dei testi sacri del marxismo-leninismo. Servirà l'ennesima acrobazia teorica, come quelle già ipotizzate dalla stampa cinese: "diritto di sfruttamento di lungo termine", "diritto di utilizzo permanente". Ma al di là della forma, conterà la sostanza. E un primo provvedimento è già stato annunciato ieri da Pechino: per sostenere lo sviluppo delle zone rurali, saranno creati un centinaio di nuovi istituti finanziari per l'agricoltura, che andranno ad aggiungersi ai sessanta già esistenti.
Quel che è certo è che la riforma agraria in questi giorni allo studio della nomenklatura avrà un effetto dirompente sull'economia e sulla società cinese. Secondo gli esperti, infatti, la nuova legge dovrebbe innescare allargamenti di scala, incrementi di produttività, progresso tecnico, meccanizzazione. Inoltre, aumentando i redditi e le condizioni di vita delle popolazioni rurali, avrà un effetto di stimolo sui consumi domestici e sulla crescita del Pil. Al tempo stesso, però, la riforma agraria rischia di mettere in crisi il vecchio modello di sviluppo industriale basato sulla manodopera a basso costo. Un modello che, negli ultimi trent'anni, ha funzionato egregiamente, grazie proprio all'inesauribile serbatoio di braccia provenienti dalle campagne depresse. Quando i contadini potranno ambire a un livello di reddito decoroso, non avranno più motivi per andare a lavorare per una ciotola di riso a migliaia di chilometri da casa.
lucavin@attglobal.net
10/10/2008