AGI - La Cina è un po' meno vicina. Tensioni commerciali, costi in aumento, politiche anti-Covid: negli ultimi anni - con un'accelerazione molto recente - Apple sta provando a ridisegnare la propria filiera, nel tentativo di alleggerire il peso di Pechino. Non è semplice, anche perché si tratta di una ragnatela complicata: ogni componente - dai chip ai display fino al più minuto pezzo di iPhone e Mac - viene progettato, prodotto e poi assemblato da centinaia di società diverse in decine di Paesi diversi.
Il successo finanziario di Apple nell'era Cook dipende anche dal fatto di aver scommesso sulla Cina, grazie a una combinazione di paghe basse, capacità tecniche e volumi impensabili nelle fabbriche occidentali. Il legame è però diventato un vincolo, dal quale Cupertino sta cercando di liberarsi (per quanto possibile) guardando altrove.
Apple Made in China
Oggi, sia chiaro, l'obiettivo è lontanissimo: le stime, punto percentuale più punto percentuale meno, concordano nel dire che la Cina copre oltre il 90% della produzione. Tra i 200 principali partner di Apple, 151 hanno almeno un impianto nel Paese asiatico. Qualcosa però si muove. Spulciando la lista dei fornitori più recente, relativa all'anno fiscale 2021, gli stabilimenti con sede in Cina sono in tutto 268. Erano 381 (il 30% in più) appena quattro anni fa.
A livello di volumi, il calo non è proporzionale, ma i dati riflettono quantomeno il tentativo di esplorare altre geografie. Fatta eccezione per il Giappone (dove gli impianti sono passati da 135 a 101), infatti, tutti i maggiori partner commerciali hanno visto aumentare il numero di sedi produttive: negli Stati Uniti sono passate da 65 a 84, in Taiwan da 56 a 72, in Corea del Sud da 41 a 46, in Malaysia da 17 a 23, in Vietnam da 20 a 28, in Thailandia da 16 a 18 e in India da 8 a 11.
Perché diversificare conviene
Nel mondo degli investimenti, è buona norma diversificare. Cioè non legare le proprie sorti a un solo asset. Ecco, questo è quello che sta provando a fare Apple: spalmare i rischi su più aree. Ma di quali rischi si tratta?
Il primo è legato alla continuità operativa. La pandemia ha dimostrato come alcuni imprevisti esterni al settore (i cosiddetti fattori esogeni) possano condizionare la produzione. La politica “zero Covid” della Cina è andata ben oltre i lockdown visti in occidente. Bastano pochi casi per bloccare gli impianti, ritardare le consegne e dilatare i tempi d'attesa: è successo agli stabilimenti Quanta di Shanghai (dove si producono i MacBook) e – nei primi giorni di novembre - a quelli Foxconn di Zhengzhou. Si tratta di scelte governative, sulle quali Apple non ha alcun controllo, in Cina come altrove. Ma un conto è dipendere dalle decisioni dei governi e un altro è dipendere dalle decisioni di un governo.
Secondo motivo: la prossimità. Potrebbe essere utile e conveniente avvicinare la produzione al mercato di vendita. La Cina è ancora essenziale per il bilancio di Apple (insieme a Taiwan e Hong Kong pesa per il 19% del fatturato), ma non sembra poter tornare ai picchi di qualche anno fa, quando rappresentava un quarto degli incassi, specie se Pechino dovesse decidere di spingere i propri campioni nazionali. Il resto della regione Asia Pacifica e l'India contribuiscono ancora poco al bilancio di Cupertino, ma rappresentano territori poco o per nulla esplorati dai prodotti di fascia alta. In altre parole: cresceranno, tanto.
La rilocalizzazione ha poi un tema di costi. La paga media di un operaio cinese non è ancora paragonabile a quella di uno occidentale. Ma è lievitata negli ultimi anni ed è superiore a quella della manodopera indiana o vietnamita. Senza dimenticare i vantaggi fiscali che Paesi in forte espansione possono offrire per attirare i fornitori e gli accordi di libero scambio, che mettono al riparo da battaglie tariffarie e dazi. Tutto questo all'interno di un intreccio geopolitico nel quale la tecnologia – funzionale all'egemonia globale - è un fattore di frizione tra Washington e Pechino. Con Apple in mezzo.
La “migrazione” in Vietnam e India
Da una parte la Mela deve mantenere buoni rapporti con il Paese dal quale dipende la sua produzione; dall'altra si guarda intorno. Il ceo di Apple, a lungo abitué da quelle parti, non si vede in Cina dal 2019. Vero: di mezzo c'è sta la pandemia, ma nel frattempo Tim Cook ha trovato il tempo di ricevere a Cupertino il premier vietnamita Pham Minh Chin (lo scorso maggio) e di volare in India (lo scorso giugno).
Già oggi metà degli AirPods - gli auricolari senza fili della Mela - viene prodotta in Vietnam. Il Paese starebbe testando la produzione di MacBook ed Apple Watch.
Secondo Ming-Chi Kuo, uno degli analisti più attendibili quando si parla di Cupertino, sarebbe in programma la produzione di iPhone e MacBook in Thailandia, dove la taiwanese Quanta Computer ha già uno stabilimento.
La partita però si gioca soprattutto in India e sugli iPhone, sia per una questione di volumi sia di peso economico, visto che gli smartphone valgono oltre la metà del fatturato di Apple. Il 98% degli iPhone – secondo Bloomberg Intelligence – esce da fabbriche cinesi. Una (piccola) quota viene assemblata in India già dal 2017, rivolta soprattutto al mercato locale. La Mela ha però annunciato che da lì arriverà il 5% degli iPhone 14, cioè del dispositivo di punta lanciato questo autunno. Secondo diverse fonti, sarebbe solo il primo passo: JP Morgan prevede che la quota possa quintuplicarsi nel giro di pochi anni e Ming-Chi Kuo sostiene che uno dei maggiori gruppi industriali indiani, Tata Group, potrebbe collaborare con le taiwanesi Pegatron o Wistron (già oggi fornitori di Apple e con stabilimenti locali) per assemblare iPhone.
Fuori dalla Cina, ma con la Cina
Oggi, secondo JP Morgan, appena il 5% di tutti i prodotti Apple viene assemblato fuori dalla Cina. Gli analisti prevedono che si possa arrivare al 25% entro il 2025. Il tema della diversificazione, però, è sul tavolo da anni. E il fatto che la dipendenza sia ancora intatta la dice lunga sulla complessità del processo. Bloomberg Intelligence propone quindi stime molto più conservative: per spostare appena il 10% della capacità produttiva lontano da Pechino potrebbero servire otto anni.
C'è poi un ulteriore elemento di complessità: produrre fuori dai confini cinesi non vuol dire slegarsi dalla Cina. Molte società di proprietà cinese, infatti, producono già oggi componenti per Apple all'estero. E proprio nei Paesi dove la Mela sembra volersi espandere per diversificare. Luxshare eGoertek, ad esempio, hanno stabilimenti in Vietnam. Mentre degli 11 impianti della filiera che hanno sede in India, quattro fanno capo a società cinesi.
Un'analisi di JP Morgan ha stimato che oggi solo il 7% della produzione di iPhone è riconducibile a compagnie cinesi, visto che i maggiori partner sono di Taiwan. Nel 2025 si potrebbe arrivare al 24%. Di pari passo con la diversificazione geografica, sembra quindi procedere una concentrazione proprietaria. La migrazione permetterebbe a Apple di crescere su alcuni mercati, di produrre a costi più bassi e di mettersi al riparo dal blocco degli impianti. Ma resta - e anzi si stringe - l'intreccio geopolitico con una Cina sempre più forte anche fuori dalla Cina.