AGI - Il gran rifiuto di Elon Musk. Nonostante sia diventato il primo azionista di Twitter, non entrerà nel consiglio di amministrazione. Fa marcia indietro, con un po' di imbarazzo, il ceo Paraga Agrawal, che aveva già ufficializzato il nuovo incarico.
“Sono entusiasta di annunciare che abbiamo nominato Elon Musk nel nostro board”, scriveva il 5 aprile. “Dopo aver avuto alcune conversazioni nelle scorse settimane, ci è parso chiaro che avrebbe portato valore. È sia un appassionato sostenitore sia un intenso critico del servizio. Il che è esattamente quello di cui abbiamo bisogno in Twitter per renderci più forti nel lungo termine”. E con tanto di punto esclamativo: “Benvenuto Elon!”. L'uomo più ricco del mondo aveva risposto e confermato: “Attendo di lavorare con Parag e il board di Twitter per fare significativi miglioramenti nei prossimi mesi”. Insomma, pareva tutto fatto. E invece no.
Oggi, 11 aprile, Agrawal cinguetta: “Elon Musk ha deciso di non unirsi al consiglio di amministrazione”. La decisione è quindi unilaterale e, a quanto pare, senza troppe spiegazioni. La mattina del 9 aprile, proprio il giorno in cui l'incarico sarebbe diventato operativo, “Elon ci ha comunicato che non si sarebbe unito al board. Credo che sia per il bene della compagnia”.
Sedotti e abbandonati, ma senza la possibilità di protestare perché il fedifrago ha pur sempre il 9,2% delle azioni: “Abbiamo sempre valutato e valutiamo i punti di vista dei nostri azionisti, che siano o meno membri del consiglio. Elon è il principale azionista e noi rimarremo aperti ai suoi input”.
Cosa c'è dietro? La risposta, quando c'è Musk di mezzo, non è del tutto prevedibile. C'è però un indizio: secondo l'accordo firmato con Twitter, l'ingresso nel board avrebbe proibito al fondatore di Space X di raccogliere più del 14,9% delle azioni. La compagnia aveva quindi sì lasciato la possibilità di ampliare la sua quota, ma con un tetto che - tradotto in dollari - avrebbe consentito a Musk di spendere (alla capitalizzazione attuale) al massimo un paio di miliardi.
Non molto, considerando che Musk ha già fatto un affare: da quando le ha acquistate, il 14 maggio, le azioni di Twitter hanno guadagnato quasi il 40%. È quindi possibile che il rifiuto sia dipeso dalla volontà di tenere mani e portafogli liberi, senza rinunciare al suo potere d'influenza. In pochi giorni Musk ha infatti dimostrato come non gli sia necessaria una poltrona per fare pressioni su Twitter. Il suo sondaggio sulla possibilità di modificare i tweet ha sollecitato l'intervento del ceo, che ha raccomandato di votare con giudizio perché il risultato avrebbe avuto “conseguenze”.
Board o non board, ogni sua parola ha il potere di modificare l'andamento del titolo. Il 4 aprile, quando è stato reso noto l'acquisto del 9,2%, in borsa Twitter ha guadagnato il 27%, il più grande balzo in una singola seduta dal giorno della quotazione. Come certificano i documenti della Sec, la Consob statunitense, l'operazione risaliva al 14 marzo. Quando, il 26 marzo, ha accusato Twitter di aver “fallito” nella tutela della libertà di parola e affermato di “pensare seriamente” a un social concorrente, Musk era già un azionista forte. Ma lo sapevano in pochi. Le cose non sono molto cambiate: il 9 aprile ha scritto che “molti degli account top twittano raramente e postano pochi contenuti”. E si è chiesto: “Twitter sta morendo?”.
Le uscite potrebbero essere derubricate a trollate (e non è escluso che lo siano). Ma qui c'è di mezzo una società quotata e il gioco delle dichiarazioni impatta sulle azioni. Non sarebbe una novità: è già successo con Tesla, con il titolo che ha spesso reagito a informazioni sensibili diffuse in modo non ortodosso (se non apertamente contrario alle regole). La Sec lo ha anche sanzionato, ma in questa partita Musk è sia banco che giocatore: non perde mai. Se il titolo si apprezza, la sua quota acquisisce valore. Se il titolo si deprezza, crea buone condizioni per acquistare nuove azioni.