Nonostante l’impegno del governo giapponese, le Olimpiadi di Tokyo sono una sorta di guscio vuoto, senza la consueta folla adorante a incitare gli atleti ad andare più veloci, più in alto, più forte. Una manifestazione ben diversa da quella che gli organizzatori avevano progettato all’inizio, prima della pandemia.
Oltre che nei giochi olimpici, il Giappone è ora anche impegnato nel contrasto ai cambiamenti climatici, un altro rischio ormai in bella vista, sotto gli occhi del mondo. Mentre ricerca il consenso interno e s’interroga su come proiettare la propria influenza nella regione, il Giappone rischia di veder fallire i suoi pregressi sforzi di porsi alla guida della transizione energetica, al suo interno come all’estero.
Le transizioni energetiche, essenziali per guidare la decarbonizzazione, passo fondamentale per contrastare i cambiamenti climatici, estendere a tutti l’accesso all’energia e costruire la resilienza dei sistemi energetici, sono ormai in corso. I recenti annunci politici delle principali economie avanzate hanno dato credibilità all’idea di una corsa alle zero emissioni nette che tagli il traguardo entro la metà del secolo. I negoziati sul clima in programma a Glasgow nel novembre 2021 saranno d’importanza cruciale, perché i vari governi rilanceranno le proprie ambizioni.
Il settore finanziario ha iniziato a internalizzare i rischi degli attivi non recuperabili. Le banche centrali e le autorità di regolamentazione, compresa la giapponese Financial Services Agency (FSA), sono impegnate in stress test e nella pianificazione degli scenari. In tutte le economie avanzate, Giappone compreso, è sempre più forte l’influenza delle raccomandazioni della Task Force on Climate-Related Financial Disclosures (TCFD), che sono ormai un elemento centrale della leadership del G7 e del G20 sulla finanza per il clima. Negli ultimi due anni gli investitori privati hanno abbandonato le attività ad alta intensità di carbonio, a una velocità e in proporzioni senza precedenti; proprietari di attivi, gestori patrimoniali, banche e società assicurative hanno conosciuto sforzi di leadership sempre maggiori che hanno visto il coinvolgimento di tutte le principali entità giapponesi.
Un percorso di transizione poco coerente
Gli impatti dei cambiamenti climatici e la scienza evidenziano l’urgenza di agire per il clima e di concentrarsi su una ripresa che sia una ricostruzione migliorativa anche rispetto alla pandemia di Covid-19, e si fa sempre più pressante la necessità che a far da guida siano le economie avanzate. La lista delle cose da fare è chiara: innanzitutto, impegnarsi ad azzerare le emissioni nette entro il 2050, se non prima, e porsi un obiettivo a medio termine solido e scientificamente fondato per il 2030; in ogni caso, il percorso verso il successo passa attraverso transizioni energetiche aggressive. Il primo passo per la transizione consiste nella graduale eliminazione del carbone a livello nazionale e nella cessazione dei finanziamenti del carbone all’estero.
L’eliminazione graduale del carbone rappresenta una sfida importante per il Giappone, la cui transizione e posizione internazionale incontrano l’ostacolo dell’esitazione e della natura limitata dell’impegno all’uscita dal carbone. Il paese ha fatto progressi rispetto al 2020, ma chi spinge per il progresso è consapevole dei danni imputabili alla mancata chiarezza e alla scarsa coerenza, in particolare nell’ambito sostegno dato dal Giappone al carbone negli altri paesi, e spinge per una transizione energetica che stimoli la crescita verde.
Al termine degli ultimi, ardui negoziati sul clima di Madrid nel dicembre 2019, il ministro Koizumi ha riferito che il Giappone è ormai visto, a livello mondiale, come un paria, per la sua posizione e il finanziamento del carbone. Il danno diplomatico è stato poi accelerato dalla corsa alle zero emissioni nette tra UE, Stati Uniti e Cina, con l’amministrazione Biden a riaffermare le credenziali della leadership statunitense nell’azione per il clima.
Nell’ottobre 2020 il primo ministro Suga ha annunciato l’obiettivo del Giappone di conseguire la neutralità carbonica entro il 2050. Nell’aprile 2021, al Leaders Climate Summit voluto da Biden, il Giappone, messo sotto pressione perché desse maggiori precisazioni, ha prospettato per il 2030 un obiettivo di riduzione delle emissioni del 46-50 percento rispetto ai livelli del 2013 (un miglioramento rispetto al precedente obiettivo del 26 percento). Il nuovo accordo bilaterale tra Stati Uniti e Giappone prevede tra i due paesi un partenariato volto a “promuovere il flusso di capitali pubblici e privati verso investimenti climaticamente allineati, anziché verso investimenti ad alto contenuto di carbonio”. Il primo ministro Suga ha affermato che il Giappone “è determinato a guidare la soluzione della sfida dei cambiamenti climatici, per l’intera umanità”.
Una direzione di marcia ben chiara. A metà giugno il Giappone, pur riluttante, ha firmato il comunicato con cui i paesi del G7 si impegnano a cessare, entro la fine del 2021, ogni nuova forma di sostegno governativo diretto alla generazione di energia termica da centrali a carbone non soggette ad abbattimento, a livello internazionale, anche attraverso strumenti di Official Development Assistance (ODA), investimenti finanziari per l’export, supporto finanziario e promozione commerciale.
Al Giappone si prospetta un percorso più difficile di quello di molti dei suoi pari, poiché, come ha di recente osservato l’International Energy Agency (IEA): “l’intensità di carbonio della fornitura energetica del Giappone rimane una delle più alte tra i membri della IEA. Il Giappone dovrà agire rapidamente per progredire, con le drastiche riduzioni delle emissioni necessarie a soddisfare la sua recente ambizione di conseguire la neutralità carbonica entro il 2050”.
L’attesa revisione della strategia energetica
Per i dettagli su come il Giappone intenda mantenere la promessa dello zero netto, l’attenzione di tutti si appunta sulla revisione della strategia energetica del paese, che è attualmente in corso e di cui si attende a breve una bozza. I segnali di cambiamento ci sono, ma manca ancora un cambio di passo apprezzabile. In aprile il Giappone ha annullato gli ultimi progetti sul carbone in fase di pianificazione, ma le sue società di pubblici servizi hanno ancora in costruzione 6 gigawatt di energia prodotti dal carbone. Le stime attuali del mix energetico giapponese per il 2030 prevedono che il 40 percento degli approviggionamenti arriverà ancora da carbone e gas. Per eliminare gradualmente il carbone entro il 2030, l’impegno assunto nel contesto del G7 richiede necessariamente al paese, per conseguire gli obiettivi climatici posti e assumere una posizione di leadership, una strategia molto diversa dall’attuale e protratto utilizzo “efficiente e pulito” del carbone. Sono molte le imprese progressiste che invocano il cambiamento a livello nazionale, e vi sono delle entità subnazionali che manifestano capacità di leadership. Tokyo e Kyoto hanno entrambe obiettivi di energia pulita: Tokyo ha un piano per l’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050, mentre Kyoto ha aderito alla Powering Past Coal Alliance anglo-canadese.
Resta comunque ancora molto da fare all’estero, per chiudere una volta per tutte la porta dei finanziamenti giapponesi alla produzione di carbone.
Nonostante nel 2020 si sia impegnato a limitare, in linea di principio, il finanziamento pubblico del carbone all’estero, il Giappone si è comunque lasciata aperta l’opportunità di sostenere “progetti ad alta efficienza secondo la situazione del paese ospitante”, possibilità formulata con un linguaggio che è uno strascico degli impegni in materia di carbone assunti in epoca pre-Parigi delle banche per lo sviluppo e delle organizzazioni per il finanziamento dello sviluppo, con la previsione di eccezioni per le situazioni estreme. Si tratta di eccezioni che non sono in linea con la scienza sottesa alle emissioni nette zero, non tengono il passo con gli impegni assunti dal paese e non seguono la direzione della sua finanza pubblica e privata. Per esempio, nel maggio 2021 l’Asian Development Bank, pilastro essenziale della diplomazia economica del Giappone nella regione, ha emesso una nuova politica energetica che pone fine al finanziamento di energia e calore a carbone, e si impegna a favore della transizione dei suoi membri verso l’energia pulita.
I dinosauri della finanza
La copertura del Giappone si estende dal posizionamento del governo alla finanza pubblica e privata all’estero. Dal 2020 le principali banche giapponesi rilasciano dichiarazioni volte a subordinare i prestiti a progetti sul carbone a un maggior numero di condizioni. Più di recente, la SMBC ha annunciato che non finanzierà più il carbone ultra-supercritico. Il 18 giugno 2021, tuttavia, la Sumitomo, in netto contrasto con le pressioni dei suoi azionisti sulle istituzioni finanziarie occidentali, ha respinto la proposta di allineare la propria attività agli obiettivi mondiali per il clima, e resta impegnata in progetti sul carbone in Bangladesh e in Vietnam. In un momento in cui le società commerciali di tutto il mondo aderiscono a obiettivi climatici sempre più aggressivi, questo sembra collocare la Sumitomo nella fascia dei dinosauri del carbone. È comunque al tenace lavoro di ONG e think tank che si deve la progressiva ricostruzione del complesso panorama dei finanziatori del carbone. Oltre al continuo coinvolgimento del governo giapponese nel finanziamento del carbone, nonostante l’impegno alle zero emissioni nette e il raffreddamento della domanda di carbone dei paesi beneficiari, come nel caso del Bangladesh, a emergere è l’entità del coinvolgimento degli investitori istituzionali e delle banche commerciali giapponesi. A dispetto degli impegni per la decarbonizzazione, tra l’ottobre del 2018 a l’ottobre del 2020 i tre maggiori erogatori di prestiti commerciali per il carbone sono stati degli istituti finanziari giapponesi (Mizuho, SMBC e MFUJ, per un totale di 76 miliardi di dollari); a ciò si aggiungano i cospicui investimenti sul carbone del fondo pensionistico del governo giapponese (GPIF). Il Giappone è dunque il secondo maggior finanziatore del carbone, proprio nell’anno in cui il G7 e la COP26 decretano la fine del carbone.
Finanziare attività energetiche a carbone proprio quando il mercato manda chiari segnali sulla maggior economicità delle moderne energie rinnovabili e sul loro miglior ritorno finanziario rischia di portare a contraccolpi in quei paesi che hanno disperato bisogno di aiuto per compiere la transizione verso l’energia pulita. Questi paesi devono infatti anche fornire energia pulita alle proprie aziende, che devono essere competitive all’interno di catene del valore mondiali sempre più decarbonizzate per effetto degli impegni climatici e delle pressioni degli investitori.
È quindi ormai tempo che il Giappone si metta in posizione di poter vincere la corsa all’azzeramento delle emissioni nette: questo significa accelerare la politica per la graduale eliminazione delle unità a carbone meno efficienti entro il 2030 e procedere a una revisione della strategia energetica sulla base di scenari di eliminazione graduale del carbone entro il 2030. Il paese dovrebbe cessare tutti i finanziamenti del carbone nel corso di quest’anno e sedersi al tavolo con Stati Uniti e Unione europea per inserirsi nella visione più ampia del finanziamento della transizione verso l’energia pulita dei paesi in via di sviluppo, in cui l’abilità e l’esperienza tecnologiche del Giappone, soprattutto nel campo dell’efficienza energetica, rappresenterebbero un vero vantaggio. È anche tempo che il G20 introduca ufficialmente dei sistemi di tracciabilità della trasparenza che garantiscano la piena divulgazione dei flussi finanziari transfrontalieri per i combustibili fossili.
Con un’immagine che richiama le Olimpiadi, si può dire che il Giappone è stato lento alla partenza dai blocchi e lento nell’orientare la propria transizione energetica verso le zero emissioni nette. Ma la corsa non è ancora finita, e non c’è nulla che impedisca al paese di superare gli altri. Se lo facesse davvero, non solo il Giappone, ma tutta la regione e il mondo intero godrebbero di risultati migliori.
* Rachel Kyte è la 14° preside, la prima donna, della Fletcher School della Tufts University, la più antica scuola di affari internazionali degli Stati Uniti. Prima di entrare alla Fletcher, Kyte è stata Rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite e amministratrice delegata di Sustainable Energy for All, organizzazione internazionale che promuove un’azione più rapida verso il raggiungimento del Goal 7 degli Obiettivi di sviluppo sostenibile. In precedenza è stata vicepresidente della Banca mondiale. Articolo pubblicato sul numero di luglio 2021 di WE World Energy
WE World Energy è il magazine internazionale sul mondo dell'energia pubblicato da Eni - diretto da Mario Sechi - che con il suo portato di esperienza e scientificità si è guadagnato una posizione di grande rilievo nel panorama internazionale dei media di settore.