Sul sito “Stop Hate for Profit”, i marchi che hanno o hanno promesso di bloccare i propri investimenti pubblicitari sui social network sono più di 240. Ma potrebbero essere molti, molti di più. Secondo un sondaggio della World Federation of Advertisers (Wfa), il 5% degli inserzionisti ha già sospeso ogni campagna e il 26% è probabile che lo faccia. C'è quindi un terzo degli investitori pubblicitari pronto a tagliare le risorse che permettono a Facebook e compagnia di incassare. Potrebbe non essere tutto, perché c'è un 41% di “indecisi”. Se una parte consistente di questi ultimi dovesse optare per il gran rifiuto, i social network si ritroverebbero con una rete di grandi inserzionisti dimezzata. Solo il 12% afferma con certezza che non ridurrà gli investimenti, mentre un altro 17% definisce il taglio improbabile.
Quanto vale chi ha detto “no”
Non si tratta di un sondaggio di piccolo cabotaggio: la World Federation of Advertisers è un ente che con i propri membri copre circa il 90% della spesa pubblicitaria mondiale. Le compagnie intervistate sono state 58. Non molte ma potenti, visto che mettono insieme una spesa di 92 miliardi di dollari. Tutti o quasi si stanno ponendo il problema. A volte con una atteggiamento più frontale, altre attraverso il dialogo: una compagnia su due afferma di aver già discusso con le piattaforme di incitamento all'odio. E il 13% sta intraprendendo altre azioni, che si potrebbero definire di compensazione: investimenti in società la cui proprietà è di minoranze o maggiore attenzione sui temi divisivi anche all'interno della propria organizzazione.
Dalla comunicazione ai consigli di amministrazione
“Nessun marchio vuole essere associato all'incitamento all'odio”, ha affermato Stephan Loerke, ceo del Wfa. “In quanto finanziatori dell'ecosistema social, gli inserzionisti hanno una voce che deve essere ascoltata. Siamo disposti a lavorare con le piattaforme per raggiungere miglioramenti capaci di produrre benefici per la società, gli investitori e le stesse piattaforme”. Il tema deve però essere “affrontato rapidamente”, perché quella che era una “sfida” per gli specialisti della comunicazione si è trasformato in “un problema discusso nei consigli di amministrazione”. È passato di livello. Ed è discusso da chi non gestisce solo la reputazione ma anche le casse delle aziende. Tra le quali (solo per citare chi ha già aderito a "Stop Hate For Profit") Unilever, Verizon, Adidas, Starbucks, Coca-Cola, Ford e HP.
La borsa conta più della cassa
Il ceo di Facebook Mark Zuckerberg si è mostrato reattivo, promettendo maggiore attenzione. Se sulla piattaforma arrivano meno investimenti, non è certo una buona notizia. Ma il social network ha dalla sua una forte frammentazione: i grandi marchi rappresentano una quota degli incassi molto minore rispetto ad altri media. Come ha spiegato al Financial Times Greg Paull, co-fondatore della società di consulenza R3 Worldwide, "Facebook ha otto milioni di clienti e i cento principali rappresentano meno del 20% del fatturato pubblicitario”. Il grosso arriva infatti da medie, piccole e piccolissime attività. Questo non vuol dire che l'azione dei grandi inserzionisti sia inutile, ma che ci vuole (anche) altro per impensierire Facebook. Rispetto alle eventuali perdite di fatturato, sarebbero molto più ingenti quelle legate alla capitalizzazione. Il deteriorarsi della reputazione, combinato con un rallentamento della crescita dei ricavi, potrebbe preoccupare Mark Zuckerberg più di quanto non faccia #StopHateForProfit. È anche a Wall Street, quindi, che bisogna guardare. Dall'inizio della campagna (il 25 giugno), il titolo di Menlo Park è arrivato a perdere l'11%, cioè quasi 75 miliardi di dollari (cifre che nessun gruppo di inserzionisti mette insieme). Dall'inizio del 29 giugno, però, è partita la risalita. Oggi le azioni sono già tornate a un soffio dai livelli pre-campagna.