La produzione di acciaio è strategica per l'Italia? Oppure no? Se non riusciamo a rispondere a questa "semplice ma estremamente complessa" domanda andremo incontro a "un sistema di costi di gestione che non sapremo governare, troppo impegnati a tappare buchi e a impedire che si aprano falle continue", senza alcuna possibilità di rilancio, né tantomeno di sopravvivenza del settore.
Ne è convinto il professor Giuseppe Berta, docente di Storia economica all’Università Bocconi di Milano, che in un colloquio con l'AGI parte dalla crisi degli stabilimenti di Acciai Speciali Terni e dall'irrisolta questione dell'ex Ilva di Taranto per analizzare le prospettive di sviluppo e il futuro dell'acciaio in Italia.
Per l'esperto, la partita si gioca tutta sul concetto di 'visione industriale', che a suo parere oggi manca del tutto. "Ancor prima di una politica industriale serve una visione industriale", premette. Ovvero chiedersi: "Ma noi il nostro futuro come ce lo immaginiamo? Quali sono gli architravi, gli assi portanti di questo sviluppo?".
Osserva l'economista: "Abbiamo detto per anni che quello dell'acciaio è un settore strategico, ma è ancora così?E quali sono le prospettive industriali dell'Italia realisticamente definibili all'indomani del coronavirus?". Con l'auspicio che "lo Stato emergenziale di oggi, che si fa confusamente carico di situazioni contingenti" si trasformi in "Stato imprenditore".
Una serie di domande, quelle che si pone lo storico dell'economia, dalla cui risposta dipende il futuro dell'industria dell'acciaio in Italia. "Prendiamo il caso ArcelorMittal a Taranto - ragiona Berta - da quando è esplosa la crisi della gestione Riva, con tutte le note applicazioni ambientali che quella crisi ha rivelato, non si è trovata una via per il riavvio dello stabilimento per dare una prospettiva che sia percorribile sia dal punto di vista dell'occupazione e della sostenibilità dei costi, sia dal punto di vista del risanamento ambientale. Probabilmente perché i costi per il risanamento sono altissimi. Ancora oggi manca una road map" per uscire da questa situazione di stallo e "abbiamo solo violente contraddizioni, con una concezione della produzione dell'acciaio e del ruolo dello stabilimento che risale a un'epoca in cui non c'era la consapevolezza dei costi ambientali, che oggi invece dobbiamo tener ben presenti".
A quello dell'ex Ilva si aggiunge il nodo dell'Ast Terni, con l'ultimo annuncio di ThyssenKrupp di volerla mettere in vendita o cederla in partnership. Il tutto, in un contesto di "crescente difficoltà dell'industria dell'acciaio nel mondo", fa notare Berta.
Il problema è "già difficile da risolvere all'interno di un contesto economico stabile, figuriamoci in uno caratterizzato dall'instabilità attuale e segnato dall'emergenza Covid - osserva - a questo punto è probabile che si ripieghi su un intervento dello Stato". Ma per l'economista il problema vero è: "Che cosa vogliamo fare?".
Questo è il punto, insiste: "L'Italia sta affrontando alcuni nodi che sono direttamente connessi non solo alla sua possibile ma non esistente strategia industriale - sottolinea - ma al suo domani industriale, senza aver fatto prima chiarezza su queste cose". Pensiamo al caso Fiat: "La produzione automobilistica per noi è strategica? E fino a che misura lo è? Così anche quella dell'acciaio - prosegue Berta - perché se noi continueremo ad avere dei capisaldi importanti nella produzione industriale, allora l'acciaio ci serve. Altrimenti non ci serve".
Ma oggi ha senso parlare di una nuova Iri? "Non può esserci una nuova Iri per un fatto molto semplice - spiega - quando l'Iri fu disegnata eravamo tra il 1933 e il 1937, quando il mondo era quello della Depressione anni Trenta e poi successivamente quello dello sviluppo industriale del Dopoguerra. Oggi lo Stato interviene solo per un problema di difficoltà, non per un problema strategico. Prima c'era l'esigenza di puntare a irrobustire alcuni settori e alcune produzioni industriali allo scopo di farle diventare gli assi portanti del nostro sviluppo economico. Oggi noi non sappiamo, né i nostri governanti né le nostre classi dirigenti ci dicono, quale sarà e che caratteri avrà, quali saranno gli assi portanti dello sviluppo industriale di domani".
E continua nel ragionamento: "Già questo ci fa capire che non stiamo parlando di nessuno Stato imprenditore, ma di uno Stato 'riparatore temporaneo'. Uno Stato emergenziale". Rileva lo storico dell'economia: "Questo non è lo Stato imprenditore, nel bene e anche nel male. Non lo è perché non racchiude una visione, uno scopo, una finalità. Ma accorre sotto l'esigenza di far fronte a un'emergenza che non si sa come gestire".
Per il professore della Bocconi, chiarite a priori quale possa essere il futuro dell'industria dell'acciaio è invece "fondamentale", altrimenti il rischio è che "queste situazioni di emergenza, che sono comprensibili perché rispondono a una pressione anche di ordine sociale e politico, diventino domani del tutto ingovernabili sotto il profilo dei costi e sotto il profilo della gestione". Non avere una visione industriale, aggiunge, significa "procedere a tentoni e con interventi dettati dalla contingenza ma che non obbediscono a nessuna linea di ordinamento in direzione di un possibile sviluppo".
Quindi sottolinea la diversità tra l'Italia e gli altri Paesi. "Pensiamo alla Francia - argomenta Berta - dove il ministro dell'Economia Le Maire tutti i giorni rilascia dichiarazioni sul ruolo dell'industria, sul ruolo dell'auto. I nostri esponenti governativi questo non lo fanno mai. Non ci dicono mai quali sono le attività che servono effettivamente al Paese per disegnare il suo domani".
Il sospetto per l'esperto "è che chi ci governa non ce lo dice perché non ce l'ha chiaro neanche lui". Ma se non si farà questa operazione preliminare, "non faremo altro che accentuare il marasma". E l'Italia rimarrà impantanata.