Guai a inseguire il digitale per il digitale. “È il fattore abilitante ma non quello che cerca il cliente”, mentre spesso il fintech si “crogiola in un linguaggio troppo tecnico”. Ignazio Rocco di Torrepadula è ceo e fondatore di Credimi, startup nata nel 2015. Autorizzata da Banca d'Italia, è una piattaforma di factoring digitale.
Le imprese presentano le proprie fatture commerciali e Credimi le trasforma in liquidità anticipando il pagamento, con un processo di valutazione veloce, tutto online, che sfrutta analisi dei dati e algoritmi proprietari. Caso raro da queste parti: Credimi è stata capace di raccogliere risorse (a oggi circa 18 milioni di euro) e lo ha fatto sin dal suo esordio. “Si può fare anche in Italia”, nonostante - spiega Rocco di Torrepadula - “capitali investiti male”, “demonizzazione degli imprenditori”, “furbizia” e un linguaggio sbagliato.
Quanto è ampio il mercato del factoring digitale?
Comprende le aziende da 1 milione a 100-200 milioni e richiede imprese che fatturino ad altre imprese. È un mercato potenziale da 150-200.000 aziende in tutta Italia, contro le 40.000 aziende, tipicamente grandi, cui si rivolge il factoring tradizionale. È quindi chiaro che il digitale semplifichi l'accesso e moltiplichi il mercato. Il 70% dei clienti di Credimi non avevano mai usato il factoring prima. Con il nuovo servizio Credimi Futuro, poi, qualsiasi azienda può usarlo per accedere a un finanziamento a cinque anni senza vincoli di utilizzo. Le aziende potenzialmente coinvolte sono un milione, cioè almeno cinque volte quelle del factoring digitale. Al momento c'è il vincolo dell'offerta solo a società di capitale, ma siamo al lavoro per allargarla ad altri pubblici. Adesso fa appello ad aziende con un fatturato tra il mezzo milione e i 10 milioni di euro, ma ci sarebbe anche una platea fatta di microaziende e ditte individuali.
È più forte la fame di digitale o di credito?
Il cliente non ha fame di digitale in quanto tale. Ha fame di credito veloce, flessibile e semplice da utilizzare. Faccio un esempio...
Prego...
Sono un'azienda che fattura 600 mila euro e chiedo un finanziamento per assumere tre persone. Per ottenerlo mi si richiede un business plan da 60 pagine, impegni, vincoli. A quel punto non lo chiedo più e anziché tre persone ne assumo una. Così la richiesta di credito si affievolisce. Grazie a connettività e anlitycs, il digitale può moltiplicare la domanda di credito perché permette di trovare dati sulle aziende, analizzarli più velocemente e fornire una risposta più rapida. Che il servizio sia digitale è un fattore abilitante, ma non è quello che muove l'imprenditore.
Quali sono gli attriti che frenano questo “fattore abilitante”?
A volte nel mondo finanziario c'è la tendenza a voler essere troppo tecnici. Con l'investitore mi dilungo, entro nei particolari. Ma quando parlo con il cliente non ci penso neanche a dire che Credimi è un 'digital invoice provider'. Spesso c'è invece la tendenza a crogiolarsi in termini tecnici sofisticati, che al cliente non interessano. Anzi, hanno l'effetto negativo di farmi percepire come distante. Al cliente interessa capire che tipo di finanziamenti possiamo dargli.
Credimi si è distinto per una raccolta notevole e praticamente immediata. C'è un perché?
Quando abbiamo chiesto il primo round eravamo tre persone. Io, Jacopo Anselmi e Sabino Costanza. Abbiamo deciso che serviva capitale, anche per essere regolati da Banca d'Italia. Abbiamo messo soldi nostri e investito 1,2 milioni. Tutti avevamo uno stipendio e invece in Credimi abbiamo una compensazione di 50 mila euro lordi l'anno. Abbiamo quindi rischiato tanto in proprio. Ad attirare i capitali, poi, credo sia stato il progetto, molto specifico. E abbiamo convinto altri investitori a mettere altri 7 milioni. Nel Paese i soldi ci sono, ma serve avere ambizione: non si fanno cose complesse con 100 mila euro. Non si crea un brand, ad esempio, senza investire in marketing.
Quindi non è solo questione di risorse...
In Italia c'è sempre questo problema della furbizia. Come quelli che dicono che 'il sito me lo fa l'amico di mio nipote'. Ci vogliono umiltà e voglia di farsi il mazzo. Non basta avere idee brillanti. La richiesta a Bankitalia è un documento di mille pagine. Abbiamo messo su il prodotto con 200.000 righe di codice. Serve esperienza, con almeno una persona con i capelli bianchi perché è un settore regolato. Le soddisfazioni poi arrivano, ma come per noi possono venire per chiunque altro.
La mancanza di capitali però resta un problema...
C'è un'oggettiva carenza. Una quota molto alta viene investita in immobili, titoli di stato ed è molto più bassa quella destinata ad attività produttiva, venture capital, private equity. C'è quindi il problema di una grande quantità di risparmio investita male, sia per chi investe sia per il Paese, perché non genera ritorni nel medio lungo termine.
Si può parlare di una questione generazionale? In altre parole: le startup sono frenate anche da una certa diffidenza nei confronti dei giovani?
Non credo. Guarderei dei fatti concreti che inducono all'ottimismo. Ci sono imprese come Satispay che hanno ricevuto fiducia da finanziatori più anziani. Moneyfarm è nata quando uno dei fondatori, Giovanni Daprà, era giovanissimo. Quando abbiamo fondato Credimi, a parte me che ho i capelli bianchi, Sabino e Jacopo avevano trent'anni. Oval Money, Talent Garden, Fatture inCloud sono altri esempi. Confermano che le persone che hanno capitali non hanno problemi a dare fiducia ai giovani. Certo, se guardiamo ai dati macro, gli investimenti sono ancora troppo pochi, ma questo vale per tutti, non solo per i giovani. Sarebbe bello se ce ne fossero di più, ma è bene sottolineare che anche in Italia è possibile.
Come siete stati accolti dagli istituti tradizionali?
Nella nostra esperienza ho trovato molto interesse a collaborare, in varie forme. Azionisti di Banca Piemonte sono anche nostri azionisti, collaboriamo con il gruppo Sella e lo faremo sempre di più. Con Banco Bpm abbiamo collaborazioni proficue, così come con altre banche. Stiamo discutendo che utilizzino Credimi come loro prodotto di factoring.
Andando oltre i capitali, qual è il difetto che nota in Italia in questo momento?
Prima di tutto c'è una demonizzazione dell'attività d'impresa di cui l'Italia non ha bisogno. L'idea che gli imprenditori siano tutti rapaci trovo sia pessima. Il capitalismo selvaggio all'americana in Italia non c'è mai stato e mi sembra fuori luogo parlarne. Questo atteggiamento riguarda non solo l'impresa, ma anche scienza e tecnologia. Ed è molto pericoloso. Poi c'è un'altra questione: gli investimenti aumentano perché aprire un'azienda fintech a Milano è più semplice che a Parigi. La semplificazione fa più dei soldi pubblici. Racconto un'esperienza diretta: Abbiamo preso una persona di Stanford per uno stage da noi. Abbiamo dovuto annullare tutto perché non abbiamo ottenuto il visto.
Il fintech è un settore in cui l'Europa si evolve in fretta. Quanto è importante la presenza, in Italia, di iniziative “di settore”?
Tanto. L'Associazione Italia Fintech, come il Fintech District nato a Milano sono luoghi dov'è possibile accelerare. Le esperienze vengono messe a fattor comune senza minare la competizione. Sono canali che ci permettono di parlare con una voce comune, avere maggior peso e farci comprendere meglio.