Ai tempi della crisi greca, un analista disse che la Banca centrale europea, in confronto alla Federal Reserve, era uno zoppo che gareggiava con Usain Bolt. La Fed aveva spento l'incendio della crisi dei mutui con un programma di acquisti tempestivo e vastissimo e aveva iniziato a tagliare i tassi portandoli progressivamente a zero. La Bce, allora guidata da Jean-Claude Trichet, rimase a guardare, paralizzata dai diktat di Berlino che temeva gli effetti sull'inflazione di un allentamento monetario. Questo non perché, come spesso si dice, la Germania sia terrorizzata dai fantasmi della Repubblica di Weimar, ma perché il modello economico tedesco aveva bisogno di salari sotto controllo, in modo tale da mantenere le esportazioni competitive, e tassi alti per concentrare il risparmio nelle Sparkasse, che hanno sempre offerto ai clienti ricchi rendimenti. Due condizioni che mal si conciliano con un costo del denaro pari a zero.
Mario Draghi, di fronte a una crisi del debito che aveva minacciato anche l'Italia, riuscì a imporre un piano di 'quantitative easing' e un abbassamento dei tassi a zero, ma solo al prezzo di un duro confronto con la Bundesbank che ne ritardò l'azione. Eravamo ormai nel 2015 e i paesi dell'Eurozona dai conti più fragili si ritrovavano già da anni alle prese con tassi di disoccupazione alle stelle e i bilanci delle banche pieni di sofferenze.
Un quadro invertito
Oggi il quadro si è invertito. La banca centrale compatta e pronta a fare la mossa giusta al momento giusto è la Bce. Quella divisa e tentennante è la Fed. Un radicale mutamento del quadro che appare evidentissimo dai verbali degli ultimi vertici di politica monetaria dei due istituti. Già a un primo sguardo la differenza appare evidente.
Le minute della Bce sono agili da leggere, ben organizzate per punti, partono con un'analisi dell'andamento dei rendimenti dei bond pubblici (che dal punto di vista macroeconomico è il tema del momento), dipingono un quadro sintetico con gli ultimi dati, prendono atto della minaccia rappresentata dalla guerra dei dazi e chiariscono in modo inequivocabile l'opportunità di un ulteriore allentamento monetario.
Le minute della Fed, molto più lunghe e verbose, si dilungano sul dibattito interno, mostrando una banca centrale divisa e incapace di rendere chiare le proprie intenzioni. Ironicamente, nella premessa viene sottolineata la necessità di rivedere le strategie comunicative della Fed. Le ragioni di tanta titubanza sono di carattere innanzitutto politico.
Chi disturba il manovratore?
In passato erano la Germania e i suoi alleati del Nord Europa a frenare l'allentamento monetario, riducendo spesso lo spazio di manovra di Draghi. Oggi la Germania si trova sull'orlo di una recessione e appare pronta ad allargare, finalmente, i cordoni della borsa. Non ci sono quindi più contrasti nel board dei governatori sulla necessità di ricaricare il 'bazooka'.
Che l'apertura a un nuovo 'quantitative easing' sia arrivata per bocca di un (ex) falco come il finlandese Olli Rehn è stato un segnale molto preciso: Christine Lagarde, quando prenderà il posto di Draghi il prossimo 1 novembre, avrà alle spalle un consiglio dei governatori compatto e non dovrà litigare con il capo della Bundesbank ogni volta che vorrà tagliare i tassi. Questo perché gli stessi governi europei che sono 'azionisti' della Bce sono, per una volta, d'accordo sulla strada da seguire.
Il numero uno della Federal Reserve, Jerome Powell, è invece ostaggio del suo pessimo rapporto con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che gli ha chiesto più volte un allentamento aggressivo per attutire l'impatto della guerra dei dazi con Pechino e finora ha ottenuto un taglio di appena un quarto di punto. Era da tempo che non si assisteva a un simile conflitto tra Casa Bianca e Fed: se, dopo la crisi, l'economia americana si è ripresa così in fretta è anche per la sintonia e il lavoro di squadra tra l'amministrazione Obama e Ben Bernanke prima e Janet Yellen poi.
Powell non ha una via d'uscita semplice
Che conseguenza concrete ha questo? Che la Fed non è in grado di sbilanciarsi sulle proprie intenzioni (nelle ultime minute si limita a dire di avere le "opzioni aperte") perché qualunque cosa fa sbaglia. Se promette troppo poco, anche i mercati perderanno la pazienza, non solo Trump. Se promette troppo, e farà quindi quello che gli chiede Trump, l'immagine di indipendenza della banca centrale potrebbe uscirne minata e i timori di recessione potrebbero aggravarsi, qualora il cambio di passo risulti troppo netto.
Non solo. Sebbene alcuni membri del Fomc, il comitato di politica monetaria della Fed, si siano detti favorevoli a un taglio dei tassi più deciso nell'ultima riunone, ben due dei membri aventi diritto (salvo il board, il voto viene esercitato a rotazione) hanno votato contro, ritenendo che la debole inflazione non giustifichi un allentamento. Deve la Fed essere 'dipendente dai dati', come si dice in gergo economico, in maniera rigorosa o deve essere il più flessibile che può? È un discorso complicato: negli ultimi anni la tradizionale relazione inversa tra disoccupazione e prezzi (la famosa 'curva di Phillips') sembra saltata. Ma anche su questo fronte la discussione è aperta. Dall'attesissimo discorso che Powell terrà domani, al termine del simposio di Jackson Hole, si capirà se un cambio di passo ci sarà o meno.