Sit-in a Palermo dei lavoratori Almaviva, colosso dei call center. Dalle 9 alle 13 presidi davanti ai punti di Wind e Tim di via Libertà, di tutti gli operatori liberi dal servizio, contro il rischio di dimezzamento degli stipendi e, a partire da settembre, di licenziamenti per il crollo dei volumi di traffico.
Tim e Wind avrebbero fatto sapere - dicono i sindacati - che da luglio passeranno il 70% in meno di chiamate. Sindacati e lavoratori sollecitano il governo nazionale a "intervenire su una crisi strutturale" che in Sicilia mette a rischio 20 mila posti di lavoro, di cui 3.200 in Almaviva Palermo, in un contesto in cui "i volumi di traffico delocalizzato all'estero hanno percentuali che superano il 60%".
Chiesto il rispetto delle tariffe minime stabilite dalla legge e sollecitata la costituzione di un fondo di settore. Un tavolo è stato fissato al ministero del Lavoro per mercoledì prossimo.
In Italia circa 80mila persone lavorano nei call center. Di queste, la metà risponde alle chiamate dei clienti (inbound) e l’altra metà si occupa di outbound (ovvero propone agli utenti nuovi piani tariffari o prodotti da acquistare). Ma per molti di loro il posto di lavoro – che da anni rappresenta l’emblema della precarizzazione – è più a rischio che mai. E non è solo un problema dei lavoratori di Almaviva.
Quella dei call center è stata per anni una giungla, ma nel settore si è nel frattempo insinuato un tarlo che ha lavorato in profondità, intrecciandosi a una crisi economica che ha di fatto sublimato una situazione esplosiva. La globalizzazione (e le delocalizzazioni) esistono anche per i call center. Altrove ci sono costi minori, ma questo si chiama dumping se poi si va a gareggiare su commesse in Italia. Si è intervenuti nel 2012 con l'articolo 24-bis del Dl sviluppo in cui è stato previsto che chiunque si rivolga o sia contattato da call center debba sapere se sta parlando con qualcuno all'estero.
E sul futuro dei call center incombe il momento in cui chiameremo un'azienda, alzerà la cornetta un call center e risponderà un software. A gennaio The Information aveva rivelato che “alcune grandi società” stanno testando Duplex, la tecnologia di Google che permette a una macchina di conversare con gli umani, dando l'impressione di essere (fin troppo) umano.
Quando il ceo di Google Sundar Pichai ha presentato la tecnologia, durante la conferenza degli sviluppatori, la prima reazione è stata di entusiasmo. Le due telefonate in cui Duplex interagiva con un cliente per prenotare un tavolo al ristorante e un appuntamento dal parrucchiere avevano messo in mostra una voce naturale, per nulla robotica, e un modo di esprimersi umano, costruito anche con l'artificio di alcuni intercalare non necessari, come “aaah” e “mmm”. Dopo aver chiuso la bocca per lo stupore, è subentrata la preoccupazione. Da una parte per i lavoratori che, con tutta probabilità, avrebbero perso il proprio posto. Dall'altra il tema della trasparenza: alcuni osservatori avevano definito “orripilante” l'idea di non poter distinguere tra uomo e macchina. La reazione è stata talmente forte da spingere Google a replicare. In una nota aveva affermato di “comprendere” il problema e di impegnarsi per costruire “meccanismi di trasparenza incorporati” che “identifichino in modo appropriato” l'intelligenza artificiale. In altre parole: Duplex dirà ai suoi interlocutori che è un software, senza bocca e orecchie.