I consumatori possono fare causa a Apple per abuso di posizione dominante. Lo ha deciso la Corte Suprema, legittimando così una class action che a Cupertino potrebbe costare miliardi. Si tratta di un'azione legale collettiva nella quale possono aggregarsi i proprietari di iPhone.
Non è la prima volta che Apple finisce sotto gli occhi dell'antitrust. Questa volta, però, c'è una novità. Importante. A muoversi non sono sviluppatori o concorrenti, ma gli utenti. Potenzialmente milioni di persone, che richiedendo rimborsi potrebbero appesantire il bilancio della Mela. Sia chiaro: non è un giudizio di colpevolezza, che è ancora tutto da decidere. La Corte Suprema ha però detto che “sì”, la class action si può fare. Non ha retto la difesa di Cupertino, che per scamparla aveva puntato su un precedente del 1977 e su un produttore di mattoni.
Le accusa della class action
La class action accusa Apple di aver messo su un monopolio delle app. Se hai un iPhone e vuoi comprarne una, le alternative sono due: la scarico o non la scarico. Non ci sarebbe quindi una vera concorrenza. Apple sfrutterebbe questa posizione di vantaggio gonfiando le commissioni che percepisce: incassa infatti il 30% su ogni transazione e il 15% su ogni abbonamento dal secondo anno in poi. In questo modo, influenzerebbe i prezzi delle applicazioni, che verrebbero scaricati sugli utenti.
Il nodo è lo stesso indicato da Spotify nella sua lettera di denuncia alla Commissione Ue, preso però da un altro versante. La piattaforma di streaming musicale sostiene che le tariffe “soffochino l'innovazione” e penalizzino gli sviluppatori terzi. L'azione di Spotify, importante sia per la possibile multa che per i nomi in ballo, è comunque “tradizionale”. Una società accusa un'altra di abusare della propria posizione dominante. Nella class action, invece, a muoversi sono gli utenti. Ed era proprio questo il punto su cui si è giocata la decisione della Corte Suprema.
La difesa di Apple basata sul mattone
Apple ha provato a smentire la legittimità dell'azione collettiva rifacendosi a un caso del 1977, che ha avuto grande impatto nella storia delle cause antitrust americane. E così una delle più grandi imprese digitali del mondo ha ripescato una società che più analogica non si può: una compagnia che produceva mattoni e materiali per le costruzioni, opposta più di quarant'anni fa allo Stato dell'Illinois.
La Illinois Brick Company faceva il prezzo e vendeva i propri prodotti alle aziende di costruzioni che ottenevano appalti pubblici. Lo Stato dell'Illinois ha così fatto causa, perché i prezzi imposti si scaricavano su tutta la filiera e pesavano sulle casse pubbliche. La Corte Suprema ha però bloccato l'azione antitrust perché solo un acquirente diretto avrebbe potuto avanzarla.
Se Tizio (l'Illinois Brick Company) vende a Caio (le imprese di costruzioni) e Caio vende a Sempronio (lo Stato dell'Illinois), la causa non può fare “salti” della catena. Sempronio può portare il tribunale Caio ma non Tizio. Se c'è qualcuno che può fare causa a Tizio, è solo Caio. Ora, che c'entra con Apple?
Gli avvocati della Mela hanno provato a convincere i giudici di essere come l'Illinois Brick Company. Con gli sviluppatori nei panni delle imprese di costruzioni e gli utenti in quelli dell'Illinois. I proprietari degli iPhone sarebbero come Sempronio: comprerebbero dagli sviluppatori di app-Caio e non potrebbero quindi fare causa ad Apple-Tizio, intermediario che non incassa dagli utenti ma da chi crea le applicazioni.
La Corte Suprema ha smentito questa versione. Perché traccerebbe “limiti arbitrari” lungo la filiera dell'App Store. E poi perché, se ammessa, sarebbe un precedente grazie al quale “i rivenditori monopolistici potrebbero strutturare le transazione per eludere le richieste antitrust da parte dei consumatori”. In sostanza, sarebbe più semplice scansare le eventuali responsabilità: basterebbe creare tanti Caio per mascherarsi da Sempronio.
La Corte Suprema spaccata
I giudici hanno sottolineato le differenze che c'è tra i mattoni e il digitale: “I proprietari di iPhone non sono i consumatori in fondo a una catena di distribuzione verticale”. Il rapporto con Apple è quindi “privo di intermediari” perché gli utenti “acquistano app direttamente da chi è accusato di violare le norme antitrust” e pagano a Cupertino “il presunto sovrapprezzo” che deriverebbe dalla posizione dominante. Apple è Caio.
La decisione della Corte Suprema era tutt'altro che scontata. E lo conferma anche l'equilibrio tra i voti: il via libera alla class action ha prevalso per cinque a quattro. Con i due giudici nominati da Donald Trump, Brett Kavanaugh e Neil Gorsuch, divisi. Il primo si è schierato con i liberal che hanno votato contro Apple (Ginsburg, Breyer, Sotomayor, Kagan). Il secondo si è affiancato ai conservatori (Roberts, Thomas e Alito) che sostenevano la Mela.
I possibile effetti su Apple
Si apre adesso un lungo percorso. Difficile che la class action possa chiudersi prima di un paio d'anni. Ed è tutto da vedere se Apple perderà. La Corte Suprema non si è infatti pronunciata nel merito della questione (se c'è un monopolio o meno) ma solo sulla legittimità della class action (la causa può andare avanti). È quindi prematuro parlare di cifre, anche se di certo sarebbero assai consistenti. Lo si capisce anche dall'andamento del titolo Apple, che nella seduta successiva al giudizio ha perso più del 5%.
Non è solo questione di eventuali sanzioni: la class action toccherebbe i servizi, seconda voce di bilancio (dopo gli iPhone), segmento in grande crescita, principale stampella del gruppo in questi mesi complicati e propulsore per il futuro. Aspettando streaming e salute, dalle tariffe dell'App Store arriva ancora buona parte del fatturato dei servizi.
Rispondendo alle accuse di Spotify (che non si discostano molto da quelle dalla class action) in un'intervita a Cbnc, il ceo Tim Cook aveva già dettato la linea difensiva: “Chiaramente” Apple non ha alcuna posizione dominante, perché ha “una quota del 15% nel mercato degli smartphone”. E soprattutto: “Se possiedi il negozio all'angolo, decidi cosa va nel tuo negozio”. L'App Store è mio, cosa e come vendere lo decido io.