La crisi dei giornali tradizionali innescata dal boom di Internet e dalla vasta disponibilità di informazione presente in rete porta con sè un gigantesco paradosso. Da una parte non c'è mai stata tanta domanda di informazioni, e quindi di lavoro giornalistico, come oggi. Dall'altra queste informazioni il pubblico è abituato ad averle gratis e, se si trova di fronte a un 'paywall' (ovvero un contenuto online riservato agli abbonati), ha a disposizione parecchie alternative gratuite. La conseguenza è una competizione al ribasso dove il crollo degli utili degli editori si traduce in un taglio del costo del lavoro, il che va a detrimento della qualità dei contenuti disponibili sul web.
I limiti del 'paywall'
Trovare un modello di business sostenibile e compatibile con la rivoluzione digitale è da tre o quattro lustri il problema che attanaglia tutti gli editori. Il meccanismo del 'paywall' ha rivelato presto i suoi limiti. In primo luogo perché il presupposto è spingere chi non vuole spendere soldi per il cartaceo a investirli per leggere lo stesso articolo su un dispositivo, senza quindi offrire un contenuto originale e pensato su misura per la rete. In secondo luogo perché sono davvero poche le testate così prestigiose e così insostituibili da poter sperare di avere una sufficiente base strutturale di lettori online a pagamento. I primi esempi che vengono in mente sono i grandi quotidiani finanziari, come il Wall Street Journal e il Financial Times, che limitano peraltro al massimo gli articoli consultabili gratuitamente.
Un caso unico
La notizia è che un giornale che è riuscito a trovare questo modello di business, senza ricorrere al paywall, c'è. È il britannico The Guardian, che ha annunciato di aver chiuso l'anno fiscale 2018-2019 con un utile operativo (ovvero il denaro guadagnato solo con l'attività editoriale, al netto di altre voci come, ad esempio, investimenti finanziari o immobiliari) di 800 mila sterline, dopo vent'anni di bilanci in rosso, con perdite definite "sostanziali".
Un risultato che è ancora più sorprendente se si va ad analizzare il bilancio nel dettaglio. Oltre la metà del fatturato, il 55%, viene generato dal sito, un traguardo che solo il Financial Times e pochissime altre testate possono vantare (Il 60% del fatturato del New York Times arriva ancora dal cartaceo). E le entrate pubblicitarie contano solo per l'8% del totale. Come detto, inoltre, i paywall non ci sono: tutta l'edizione online del Guardian è consultabile gratis. E allora? Alla fine di ogni articolo del Guardian trovate questo box.
Un libero invito a donare (con la possibilità di una sottoscrizione fissa e periodica) al quale hanno aderito abbastanza lettori da costituire oggi il 47% del fatturato. Un caso unico. Talmente unico da essere molto difficilmente replicabile. Per più di una ragione.
Le ragioni di un successo
Prima di tutto, il Guardian è scritto in inglese, oggi lingua universale, e ha un'edizione internazionale distinta da quella britannica e pensata per i lettori residenti fuori dal Regno Unito, che costituiscono circa i due terzi del totale. Un obiettivo al quale Handelsblatt o Yomiuri Shinbun non possono certo aspirare. El Pais e Le Monde, che invece scelgono di offrire in abbonamento una versione digitale del cartaceo, comprensiva di supplementi, potrebbero forse provarci. Lo spagnolo si parla in quasi tutta l'America Latina e il francese in mezza Africa. Ma l'inglese è un'altra cosa.
La questione della barriere linguistiche spiega però solo una piccola parte dell'unicità del caso del Guardian. Ad aver reso, sovente a ragione, l'opinione pubblica diffidente nei confronti della stampa sono gli interessi che muovono i proprietari delle testate, raramente editori puri o privi di simpatie politiche.
Il Guardian, invece, può dirsi indipendente senza il timore di suscitare ironie, può permettersi davvero di affermare che "nessuno revisiona il nostro direttore". La proprietà è di un trust che dal 1936 ne garantisce l'indipendenza. L'altra storica voce progressista della stampa britannica, The Independent (altro caso interessante: ha chiuso l'edizione cartacea e vive solo con l'online), nell'azionariato ha persino i sauditi.
La lezione che vale per tutti
Ciò non vuol dire che The Guardian non abbia una linea politica: nato contiguo ai liberali, è poi diventato una testata di sinistra. Le critiche che i laburisti ricevono dal Guardian sono spesso però ancora più virulente di quelle che giungono dai quotidiani conservatori. Un altro aspetto da non sottovalutare, poi, è che The Guardian ha saputo fare autocritica dopo essere in parte caduto anch'esso, ai tempi dell'elezione di Trump, nel gioco della polarizzazione dove ogni elettore di destra finiva per essere infilato da molte testate liberal nel "cesto dei deplorevoli" di clintoniana memoria e, qualsiasi problema geopolitico sorgesse, era sempre e comunque colpa di Putin.
Oggi, invece, anche il nazionalista più acceso difficilmente potrà negare che la serie di articoli sul fenomeno populista pubblicata nei recenti mesi o le inchieste di Tobias Jones dedicate all'estrema destra italiana sono tra i contributi più approfonditi e obiettivi mai pubblicati sull'argomento. Contributi che sono solo un piccolo risvolto di un'altra scommessa vinta.
Viene spesso detto che in rete la soglia d'attenzione è bassissima e che dopo 30 righe quasi tutti gli utenti vengono distratti da altro. Esiste però un altro tipo di lettore, quello che vuole i longform (formato che viene considerato improponibile sul web ed è invece tra i fiori all'occhiello della nuova strategia del Guardian), vuole contenuti che siano davvero di qualità, vuole percepire che dietro quel pezzo ci sia un lavoro strenuo di ricerca, documentazione e revisione, non un copia e incolla distratto e raffazzonato.
In poche parole, il lettore vuole vedere che il giornalista di turno ha lavorato, si è sforzato e lo ha fatto senza le direttive di un padrone. In tal caso, è persino disposto a pagarlo sua sponte. Ed è quest'ultima la lezione del Guardian che vale davvero per tutto il settore.