“È ora di fare a pezzi Amazon, Google e Facebook”. La traduzione è un po’ rozza ma letterale: fare a pezzi, break up. Lo sticker su fondo verdino e caratteri neri campeggia sul post apparso su Medium l’8 marzo. Per essere la festa internazionale delle donne, la tostissima Elizabeth Warren non poteva scegliere un modo migliore forse: dichiarare la guerra finale allo strapotere della Silicon Valley. Se nel 2020 sarò eletta alla Casa Bianca, è il messaggio, questa cosa finirà. Elizabeth ha sfidato Golia.
Elizabeth Ann Warren (qui un profilo notevole a cura del New Yorker) compirà 70 anni a giugno. Dal 2013 è una senatrice del Massachusetts per i democratici, un seggio conquistato dopo aver trascorso una vita a combattere i privilegi delle banche e di Wall Street, soprattutto dopo la grave crisi finanziaria del 2008. I suoi avversari la descrivono come una populista di sinistra ma è una semplificazione eccessiva. Anche perché la Warren fino al 1994 aveva sempre votato per i repubblicani; e sostiene di aver cambiato campo proprio per poter difendere meglio la classe media dallo strapotere delle grandi organizzazioni finanziaria. Il 9 febbraio scorso, nel corso di un evento a Lawrence, in Massachusetts, si è candidata per diventare la sfidante democratica di Donald Trump per la presidenza degli Stati Uniti. E un mese esatto dopo, ha sganciato la sua “bomba” sulla Silicon Valley.
Una “bomba” per certi versi prevista: sono molti mesi che a livello accademico si discute di come arginare il potere eccessivo e distorsivo dei mercati e della democrazia delle “tech companies” americane. Ma imprevista se consideriamo il mittente. Elizabeth Warren, autorevole candidata democratica alla Casa Bianca. Il fatto è che sono dieci anni che i democratici sono perdutamente innamorati della Silicon Valley e del magico potere della rete di creare un mondo migliore. Anzi di più: sono venticinque anni. Negli anni ‘90 fu il vice presidente Al Gore (il presidente era Bill Clinton), il primo a dire che il futuro passava per le autostrade informatiche di Internet, quando Internet ancora era roba per nerd (al punto che ancora oggi molti in America sono convinti che Internet l’abbia inventata Al Gore).
E il 14 novembre 2017, il candidato alla Casa Bianca Barack Obama, mentre dimostrava a tutti il potere di Facebook in campagna elettorale, fece una celebre tappa al quartier generale di Google, a Mountain View, preludio della lunga luna di miele del presidente con le grandi aziende della Silicon Valley. “Se i miei avversari investiranno i loro soldi negli spot tv, io userò YouTube” disse il candidato democratico mandando in visibilio l’amministratore delegato di Google che lo intervistava sul palco.
Game over. Quella storia è finita, scrive Elizabeth Warren, nel suo lungo post su Medium (sette minuti per leggerlo, ma in Silicon Valley qualcuno lo ha riletto almeno dieci volte secondo me). “Venticinque anni fa Facebook, Google e Amazon non esistevano. Oggi sono tra le società più importanti del mondo. Una grande storia, ma che dimostra perché il governo degli Stati Uniti adesso debba spezzare i loro monopoli e riaprire i mercati alla competizione”.
Per spiegarlo la Warren ricorre ad un precedente importante. Quello che accadde a Microsoft negli anni ‘90: “Era un gigante tecnologico a quei tempi”, scrive la Warren. In realtà lo è anche oggi. Ma allora la società di Bill Gates era il numero uno assoluto. Il suo sistema operativo era in quasi tutti i computer e il suo browser era il più usato per navigare il web che stava nascendo. Il governo federale aprì una inchiesta contro Microsoft per violazione delle legge antitrust. Senza quella inchiesta, è storia nota, non sarebbe nato Google e forse neanche Facebook. Scrive la Warren: “Questa storia dimostra che promuovere la concorrenza è importante ed apre la strada a nuove aziende che possono offrire servizi e prodotti migliori. Oppure preferivate usare Bing come motore di ricerca?”. (Bing è il motore di ricerca che invano Microsoft ha provato a imporre al mercato).
Quello che accade oggi, secondo la Warren, è il contrario: la grandi aziende tecnologiche hanno troppo potere nell’economia, nella società e nella democrazia. Rispetto alla concorrenza, si sono comportate come bulldozer, l’hanno demolita. Comprandosi i comptetitor o mandandoli fuori mercato. E questo non ha danneggiato sono noi utenti, ma ha impantanato l’innovazione. Nessun investe più su una azienda che possa sfidare Amazon, Facebook e Google. Partita persa. “La metà di tutto il commercio elettronico passa attraverso Amazon, il 70 per cento del traffico Internet è su siti gestiti o di proprietà di Google e Facebook... Queste aziende hanno un potere enorme sulla nostra vita digitale”. (su questi dati c’è stata un po’ di maretta, alcuni hanno notato che un contro è il traffico dati per gli Stati Uniti, un altro se consideriamo il mondo intero).
La Warren non si limita alla denuncia, ma spiega nel dettaglio quali cambi strutturali ci saranno se diventerà presidente degli Stati Uniti (la prima donna, tra l’altro). Si tratta di rovesciare quei meccanismi che hanno consentito un simile accumulo di potere. Il primo: l’utilizzo delle fusioni per limitare la concorrenza. Esempi: Facebook che compra Whatsapp e Instagram; Amazon che costringe una bella azienda come Diapers (pannolini e saponi) a farsi acquisire ad un prezzo più basso del valore di mercato (nel 2010; nel 2017 è sparita); Google che ingloba due possibili avversari, la startup israeliana di mappe di navigazione Waze e la piattaforma di pubblicità online DoubleClick. “Il governo invece di impedire queste operazioni che nel lungo periodo danneggiavano il mercato e l’innovazione, le ha incoraggiate”.
Il secondo meccanismo che la Warren individua quale strumento che danneggia la concorrenza, è l’abuso del potere delle piattaforme. Esempi: Amazon vende prodotti di terzi, ma a volte li copia e li vende a un prezzo più basso; e Google nei risultati del motore di ricerca, privilegia i prodotti con cui ha stretto accordi commerciali danneggiando competitor come Yelp (pratica questa sanzionata dall’Unione Europea).
Morale: “I venture capitalists hanno paura di investire in startup che già sanno che verranno schiacciate o comprate dalle big tech”. Un numero: dal 2012 ad oggi i round iniziali di finanziamento di startup sono calati del 22 per cento. Meno startup vuol dire meno competizione, meno innovazione. E dall’altra parte un gruppo di grandi aziende che possono “agire come “bulli” nei confronti del potere politico per avere immensi incentivi fiscali con i soldi dei cittadini” (vedi il recente caso New York City- Amazon).
Quello che la Warren propone è strada che ha sempre avuto cittadinanza nella storia degli Stati Uniti: “spezzare” le aziende quando diventano monopoli di fatto per assicurare servizi migliori a prezzi più bassi e ridare fiato all’innovazione, vero motore del progresso. Gli esempi che cita la senatrice sono famosi: la compagnia petrolifera Standard Oil, la banca JpMorgan, le ferrovie, la compagnia telefonica AT&T. Tutti trust che sono stati divisi per il bene comune.
La prima cosa che accadrà con la Warren alla Casa Bianca sarà il varo di una legge che stabilisce le condizioni per cui alcuni colossi tecnologici possono essere considerati “piattaforme che forniscono servizi di pubblica utilità”, e per questo motivo, separate dal resto delle attività societarie. Sopra i 25 miliardi di fatturato globale (limite ampiamente superato dalle tre aziende nel mirino della Warren), un marketplace, un mercato di annunci pubblicitari o uno strumento per unire terze parti, verranno considerati “platform utilities”. E in virtù di ciò non potranno detenere altre aziende che operano sulla piattaforma. Tradotto: Amazon Marketplace, Google AD Exchange e Google Search diventeranno “platform utilities” e saranno separate dal resto dei rispettivi gruppi.
La seconda cosa sarà rigettare fusioni e acquisizioni che hanno distorto il mercato. Qui gli esempi sono notissimi. Per Amazon, si tratta di vietare retroattivamente l’acquisizione di Whole Foods e Zappos; per Google, come abbiamo visto, di Waze e DoubleClick; per Facebook, sarebbero bocciate le operazioni con WhatsApp e Instagram. Indietro tutta.
Insomma, una rivoluzione. La Warren se ne rende conto. Ha scelto il potere più grande che c’è oggi e l’ha sfidato. Ma la Silicon Valley non è soltanto un potere: lo è perché fornisce ad alcuni miliardi di abitanti del pianeta terra servizi considerati essenziali. Li perderemo? La senatrice sa che è questa la domanda che molti le faranno, questo sarà l’argomento usato dai suoi avversari in campagna elettorale. E prova a smontarlo subito: “Come sarà Internet dopo queste riforme?” si chiede. “Ecco cosa non cambierà: Potrete ancora andare su Google e fare le vostre ricerche; e su Amazon troverete ancora trenta modelli diversi di macchina del caffè che potreste avere a casa in due giorni; e su Facebook avrete ancora la possibilità di scoprire cosa sta facendo un vostro vecchio compagno di scuola”.
Ma ecco invece cosa cambierà: “Le piccole aziende potranno vendere i loro prodotti su Amazon senza il timore di essere sbattuti fuori dal mercato; Google non danneggerà i suoi concorrenti penalizzando i loro prodotti con il motore di ricerca; e Facebook sarà sfidato da Instagram e Whatsapp a fornire una protezione vera della privacy degli utenti. E gli startupper avranno una chanche di giocarsela con i giganti tecnologici”.
E questo è solo l’inizio, conclude la Warren: poi occorre rimettere il controllo dei dati personali nelle mani degli utenti; ridare ai giornali la possibilità di fare introiti adeguati con le notizie su cui invece guadagnano troppo Google e Facebook; fare in modo che la Russia, o altre potenze, non provino a manipolare l’opinione pubblica usando i social network.
Il piano per fare a pezzi Amazon, Google e Facebook è lanciato. Qualcuno dice che è una idiozia (il Washington Examiner), per altri è sacrosanto (The Week Magazine). Secondo il Washington Post (che è di proprietà di Jeff Bezos, il fondatore e amministratore delegato di Amazon), funzionerà meglio come argomento da campagna elettorale che come una politica che può realmente essere realizzata. Anche secondo gli esperti sentiti da TIME non sarà facile mantenere l’impegno una volta alla Casa Bianca. Mentre l’autorevole sito della Silicon Valley Slate avverte che sono già partite le grandi manovre per disinnescare l’attacco.
L’unico che tace è Donald Trump. Detesta la Warren, ma non di più di quanto un paio di anni fa detestasse i nuovi ricchi della Silicon Valley, che durante la campagna elettorale si erano tutti schierati (finanziandola) per la sua avversaria Hillary Clinton (tutti tranne Peter Thiel, va detto). Leggendo il manifesto della senatrice democratica, forse il presidente in carica avrà pensato che avrebbe dovuto lanciarla lui la sfida alla Silicon Valley, paladina dichiarata del valore dell’immigrazione (ricordate la campagna per i Dreamers?) mentre lui sogna un muro chilometrico con il Messico.
Quale occasione migliore per regolare i conti con l’odiato Jeff Bezos? E con i due super obamiani fondatori di Google Larry Page e Sergey Brin? E con quel Mark Zuckerberg che si comporta come se fosse più importante del presidente degli Stati Uniti? Adesso non può più farlo, ma da qui a passare dalla parte opposta e difenderli ce ne passa. Anche perché fare a pezzi le big tech della Silicon Valley vuol dire fare un favore alla Cina e alla sua big tech, proprio quando sul digitale ha innescato la freccia del sorpasso come dimostra la vicenda del 5G e di Huawei.
E poi questo della “west coast” è un mondo che Trump, cresciuto fra New York e la Florida, non conosce davvero e non capisce nemmeno, in fondo. Qualche giorno fa durante una riunione di un comitato sull’occupazione alla Casa Bianca, nel ringraziare l’amministratore delegato di Apple Tim Cook per quello che sta facendo sul tema, lo ha chiamato “Tim Apple”. Al ché Cook gli ha dato la mano e come sommo sberleffo si è affrettato a cambiare il suo nome su Twitter: dopo Tim adesso c’è solo la mela di Apple, a imperitura memoria della gaffe presidenziale. Per inciso: l’unico gigante tecnologico mai citato dalla senatrice Warren è proprio l’azienda fondata da Steve Jobs. Ci sono almeno cinque buone ragioni per cui la Apple non sarebbe nel mirino della politica. Ma la verità è che neanche Tim Apple può stare sereno. Due giorni dopo la pubblicazione del manifesto, parlando a SXSW, in Texas, la Warren ha chiarito che il suo piano riguarda anche la società di Cupertino.
post editato l'11 marzo, dopo l'intervista della Warren a The Verge che ha chiarito il coinvolgimento di Apple nel suo piano antirtrust