Larry Page e Sergey Brin non si sono sbagliati molte molte. Ma neppure i fondatori di Google sono infallibili. Google+ è il loro errore più grande: un prodotto mai compiuto che chiude in modo inglorioso dopo la scoperta di un errore nel software che ha messo a rischio i dati di 500 mila utenti. Nessuna espressione descrive meglio Google+ di quella affibbiatagli dal New York Times all'inizio del 2014: “La città fantasma”. Miliardi di iscritti, centinaia di milioni di utenti attivi sulla carta ma quasi nessuno che posta e interagisce.
Perché Google+ è una città fantasma
Ottenere statistiche recenti su Google+ è complicato. Mountain View le ha tenute sottotraccia. Gli iscritti stimati sarebbero tra i 2 e i 3 miliardi. Quelli attivi 540 milioni nel 2014 e 440 milioni nel 2016. Un social network in contrazione non è una buona notizia. Ma la situazione è ancora peggiore di quanto appaia.
Il blogger Kevin Anderson ha provato a fare la tara. E anche se i dati sono un po' anziani (si riferiscono al 2015) rendono comunque bene l'idea: solo un utente su dieci ha postato qualcosa. Solo il 6% lo ha fatto nel 2015. Nella metà dei casi, però, si è trattato di commenti su YouTube (che usa Google+ come porta d'accesso). Risultato: su oltre 2 miliardi di iscritti, solo 4-6 milioni potevano dirsi davvero attivi. E non c'è motivo di credere che questi numeri siano migliorati negli ultimi tre anni. A creare la “città fantasma” è proprio il sistema Google.
Si entra in Google+ non per curare la propria rete di contatti ma per utilizzare Gmail, YouTube, Maps o Chrome. Discorso simile per le aziende: non serve tanto per comunicare con i clienti (visto che le strade sono deserte) quanto per ottenere visibilità tra i risultati del motore di ricerca. In altre parole: Google+ è spesso una scatola vuota, ma ben piazzata in vetrina. Ecco perché Mountain View ha chiuso senza troppi patemi il social network per gli utenti ma proverà in qualche modo a riformulare l'offerta per le imprese.
Le ragioni del fallimento
Google ha continuato ad aggiornare “Plus”. Eppure già alla fine del 2014, tre anni e mezzo dopo il lancio, uno degli sviluppatori che ha visto la sua nascita indicava già il suo fallimento. Chris Messina, noto al mondo della tecnologia per essere stato l'inventore dell'hashtag, scrive un lungo post in cui parla di “cazzate” e “opportunità mancata”. Il peccato originale sarebbe stato quello di abbandonare le proprie radici per inseguire Facebook, senza riuscirci per mancanza di “visione e intuizione”. Il nome in codice di Google+ era Emerald Sea.
Quando, nel 2011, arrivò il momento del lancio si optò per “Google Me”. Un nome, secondo Messina, perfetto perché conteneva quello che il servizio avrebbe dovuto essere: “Un tuo partner fidato nel cyberspazio, che ti aiuterà a far conoscere le informazioni giuste nel momento giusto alle persone che scegli. Se cerco il numero di telefono di mia madre su Google, lo trovo perché lei lo ha inserito nel suo profilo e ha deciso di condividerlo con me”. Il posizionamento, continua Messina, era quindi più orientato alla ricerca di informazioni (che è il vero patrimonio di Google) piuttosto che alla costruzione di reti sociali.
Era questo il senso originario delle “cerchie” di “Plus”, cioè di categorie in cui includere contatti con differenti gradi di accessibilità. Molto è cambiato quando si è deciso di virare su un altro nome: Google+. “Il focus si è spostato”. E Big G si è messa all'inseguimento di Facebook, sbagliando. “Lanciando un social network convenzionale – spiega Messina - Google ha perso l'occasione di creare un paradigma positivo per la condivisione, il controllo individuale e la personalizzazione dei dati che lo distinguesse da Facebook. Ha offerto troppo poco, troppo tardi”. Parole che suonano quantomeno lungimiranti perché scritte con largo anticipo rispetto al caso Cambridge Analytica e alla chiusura di Google+.
Quanto costerà ad Alphabet?
Google+ si è trasformato adesso da “opportunità mancata” a zavorra. Il problema tecnico è un colpo alla credibilità di tutta Mountain View. Un colpo che arriva nel momento peggiore, a pochi mesi dal caso Cambridge Analytica e mentre mezzo mondo (politica compresa) inizia a comprendere lo sconfinato potere del motore di ricerca.
I danni d'immagine non sono quantificabili. Quelli economici non ancora chiari. Di sicuro c'è un calo di borsa dell'1%. Cioè 8 miliardi di dollari. In più c'è l'incognita Gdpr. Google si muove sul filo. Il regolamento europeo sulla privacy potrebbe imporre una multa fino al 2% dei ricavi totali per non aver avvertito i regolatori entro le 72 ore successive alla scoperta della “falla”.
Tuttavia, le nuove norme sono entrate in vigore a maggio, mentre Mountain View avrebbe individuato e riparato l'errore tecnico a marzo. Sì, “errore tecnico”. Perché in questo caso il crinale è anche lessicale. Google può difendersi sostenendo di non aver divulgato la notizia perché non sono emerse prove di un uso improprio dei dati esposti. Ci sarebbe quindi stato un bug ma non una falla (il Gdpr parla di “breach”) vera e propria. Non è detto però che Google sia al riparo. Una condotta non pienamente trasparente è comunque in contrasto con i principi del regolamento europeo e l'Ue potrebbe non gradire.
Gli altri otto flop di Google
Google è un fallimento? Difficile rispondere di no.
È forse il più fragoroso in casa Alphabet, ma non l'unico. Tra i flop ci sono i Google Glass. Svelati nel 2012, sono arrivati forse con troppo anticipo. Prezzo elevato e alcuni problemi tecnici e legati alla privacy ne hanno ostacolato la diffusione su larga scala, fino alla sospensione delle vendite nel 2015. Di tanto in tanto, però, emerge la voce di un rilancio.
Troppo presto (e male) sembra essere arrivato anche Nexus Q. L'intuizione di fondo era giusta: creare un dispositivo connesso agli altri della casa. Nexus Q aveva una forma sferica elegante, pescava contenuti nel cloud e li trasmetteva su tv, casse, smartphone, tablet. Lanciato nel 2012 a un prezzo importante (300 dollari), ricevette stroncature così nette da arrivare a malapena sugli scaffali prima del ritiro. Parte delle sue funzionalità sono poi state assorbite da un dispositivo di ben altro successo, Chromecast.
Sempre per rimanere agli hardware, Google ha abbandonato il progetto “Ara”. Sarebbe dovuto essere uno smartphone “modulare”, con componenti da assemblare in diversi modi secondo i gusti dell'utente. Niente da fare.
Brin e Page hanno provato anche a creare un proprio mondo virtuale, sulla scia del successo di “Second Life”: Lively. Gli iscritti a Gmail potevano conversare tra loro tramite avatar. L'esperimento, però, è durato appena cinque mesi, da luglio a dicembre del 2008.
Google Buzz è stato un social network integrato in Gmail. Presentato nel 2010, è stato soppiantato da Google+ nel 2011. Ma, come sottolinea Messina nel suo post, il fallimento di Buzz non ha insegnato molto a Mountain View.
Nel 2009 la compagnia lancia Wave. È una piattaforma che prova a raccogliere in un unico ambiente mail, messaggistica, condivisione di documenti e immagini. Una sorta di Slack ante litteram. Chiude dopo appena un anno.
Google Video ha avuto formalmente una vita più lunga, dal 2005 al 2012. In realtà è stata piuttosto breve, perché meno di due anni dopo il suo lancio Big G avrebbe comprato YouTube. Il “Tubo” ha inghiottito Google Video, che prima ha sospeso il caricamento di contenuti (nel 2011) e poi ha chiuso l'attività.
Google Health avrebbe dovuto rivoluzionare la sanità. Permetteva agli utenti di depositare in un archivio digitale i propri dati: medicinali assunti, allergie, malattie, analisi. Esordisce nel 2008 e viene chiuso all'inizio del 2012 perché – ha spiegato Google - “non ha avuto l'impatto che speravamo”.
Reader, un aggregatore di notizie e aggiornamenti, è rimasto attivo fino al 2013 dopo una carriera lunga cinque anni. Sette sono quelli che hanno portato alla fine di Google+: Mountain View 2011-2018.