L’80% del pesce che mangiamo proviene dall’estero, i dati Istat elaborati da Coldiretti pubblicati dalla Stampa parlano chiaro: nei mari italiani vengono pescate ogni anno 180 mila tonnellate di pesce, ma le importazioni ammontano a più di un milione; il calcolo risulta facile anche a chi non mastica troppo la matematica.
Spagna, Paesi Bassi e Grecia sono i Paesi sul podio, mentre il 40% del pesce che arriva sulle nostre tavole viene da nazioni extracomunitari. Ma il dato più preoccupante è che la maggior parte del pesce che importiamo - la stragrande parte sarebbe più corretto dire - non sarebbe fresco. Non solo: è di infima qualità e in molti casi non è nemmeno il pesce che crediamo di mangiare. Famosi stanno diventando i casi di pesci venduti e spacciati per altri: Pangasio del Mekong spacciato per cernia; halibut per sogliola, squalo smeriglio al posto del pescespada. Per non parlare del filetto di brosme, ottima controfigura del baccalà; del pesce ghiaccio che diventa bianchetto o del pagro con la maschera che indossa i panni del dentice rosa.
Sicuri di quello che mangiate?
In questo senso, secondo Coldiretti, i pericoli maggiori provengono dai ristoranti dove, sempre stando ai dati Istat, consumiamo il 50% del pesce che mangiamo. Tutto ciò senza considerare la percentuale di pesce surgelato che viene venduto come fresco o quello estero spacciato come nazionale. Le irregolarità infatti hanno numeri impressionanti: nel solo 2017 le Capitanerie di porto hanno effettuato 21.112 verifiche lungo tutta la filiera, rilevando 2.814 illeciti, più del 13%.
La Stampa cita un focus dei Nas che conferma le irregolarità, che però non sono solo sull’import: dal gennaio 2017 al giugno 2018 su 2.476 controlli effettuati sono state riscontrate 697 situazioni di 'non conformità', circa il 27% (ristorazione esclusa), con 310 mila kg di prodotti sequestrati e 70 strutture chiuse.
Le irregolarità penali (237 i denunciati) vanno dalla tentata frode in commercio (pesce congelato venduto come fresco o in cattivo stato di conservazione) fino alle lesioni per aver somministrato ai clienti prodotti infestati dalla larva dell’anisakis o contaminati da istamina, sostanza che si sviluppa nel pesce vecchio o mal conservato e che può provocare una reazione allergica nota come “sindrome sgombroide”.
Niente allarmismi
Ma Giuseppe Palma, medico veterinario nonché segretario generale di Assoittica, associazione che riunisce un centinaio di aziende del settore, sempre sentito da La Stampa, tenta di ridimensionare eventuali allarmismi: “Non esiste Paese al mondo in cui ci sia maggior qualità dei controlli. Io dico sempre che i sequestri ci sono perché ci sono gli accertamenti. Un rischio reale non c’è. Tutta l’Europa importa; il pesce importato offre maggiori varietà, servizio e prezzi calmierati. Uno dei problemi principali non è la mancanza di pesce nostrano, ma che sono cambiate le abitudini alimentari degli italiani. Il pesce fresco va pulito, puzza, va consumato in fretta, e il consumatore si rivolge sempre di più verso un prodotto con servizio: pulito e sfilettato”.
Nel frattempo la flotta di pescherecci italiani scende vertiginosamente (da 18.000 a 12.500 negli ultimi 25 anni) e dal 1993 le importazioni sono cresciute dell’84%, in pratica un mercato rifondato. Tonino Giardini, direttore generale di Coldiretti Impresa Pesca, sostiene che “tutto è cambiato alla fine degli anni ’80, quando ci si è resi conto che le risorse ittiche non erano inesauribili”, da allora, per evitare lo spopolamento del mare, problema gravissimo specie nel Mediterraneo dove le specie a rischio sarebbero circa il 70%, si è attuato un fermo barca, che ancora oggi, da Roma a Brindisi e dal Tirrenio e lo Ionio tengono i pescatori sulla terra ferma. Successivamente sono arrivati gli incentivi alla rottamazione dei pescherecci, che solo nell’ultimo anno hanno tolto dal mare 220 imbarcazioni".
I limiti della nobile battaglia della sostenibilità
Ma la nobile e opportuna ricerca della sostenibilità ambientale presenta anche un aspetto poco considerato secondo Luigi Giannini, presidente della Federpesca: “La situazione odierna è inaccettabile, frutto di un’operazione fallimentare che promana l’Unione Europea per incentivare in ogni modo l’abbandono del settore. Così ci ritroviamo a proteggere il nasello e il gambero del Canale di Sicilia mentre magari Tunisia ed Egitto li pescano al posto nostro”. Una soluzione potrebbe arrivare dall’acquacoltura, settore in cui l’Italia, per esempio per quanto riguarda trote e vongole, è il primo produttore europeo, il secondo dopo la Cina per il caviale.
Pier Antonio Salvador, presidente dell’Associazione Piscicoltori Italiani dice: “Dobbiamo solo rassicurare i consumatori che mangiare i prodotti di acquacoltura è sicuro perché i mangimi sono sottoposti a controlli severissimi”. Dati comunque molto preoccupanti quelli diffusi dall’Istat, tecnicismi a parte anche incredibili considerati i più di 8mila km di coste vantati dall’Italia. Di certo il problema parrebbe prima aggravarsi che risolversi.