Domanda: “Ma intanto state facendo soldi a palate”. Risposta: “Si sbaglia, non ci sono utili di Foodora Italia perché è ancora un’attività in avviamento. E anche i nostri concorrenti sono nella stessa condizione”.
È uno dei passaggi più interessanti dell’intervista che Gianluca Cocco, capo di Foodora Italia, una delle principali società di consegne di cibo a domicilio in Italia, ha rilasciato domenica 17 giugno al Corriere della sera, dove però ne spiccava un’altra che è destinata a tenere alta la tensione tra queste società e il governo: “Se fossero vere le anticipazioni del decreto dignità di Di Maio, il governo ha l’obiettivo di farci andare via dall’Italia”. Il motivo è che queste società dicono di non poter reggere il peso del lavoro subordinato. Tradotto, assumere i rider come dipendenti. Minaccia che il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Luigi Di Maio ha respinto qualche ora dopo al mittente, convocando per lunedì 18 giugno cinque delle venti piattaforme di food delivery che lavorano in Italia al ministero.
Per capire cosa c'è in ballo sul primo tavolo voluto dal ministro Di Maio, il tema del lavoro su cui il governo si gioca il suo debutto, occorre forse dotarsi di una bussola, e un po' di numeri.
Qual è il mercato del food delivery in Italia?
Si tratta di un mercato piuttosto giovane, fatto perlopiù da società che hanno cominciato a guardare il mercato italiano nel 2015. Secondo la stima più ottimistica potrebbe valere un giro d’affari di circa due miliardi di euro (numeri di un report pubblicato lo scorso marzo da una società di comunicazione, Comunicatica). Cresce del 3 percento circa ogni anno. E secondo alcuni stralci di un report che sarà pubblicato a luglio a cura della Fondazione De Benedetti, pare che in Italia lavorino come fattorini nel settore circa 10mila persone (qui le parti riportate dal Sole 24 Ore).
Il numero, anche se per alcuni è esagerato, sarebbe comunque considerevole se ce ne fossero solo la metà. Ma quello che non è emerso ancora è che riguarda solo una piccola porzione del mercato delle consegne a domicilio.
Il mercato totale delle consegne a domicilio, dove le app contano il 5%
Nel 2016, a due anni dalla quotazione della londinese Just Eat, Deutsche Bank, la banca di investimento che ne curò il listing, rilasciò un report dove raccontava i numeri reali del mercato del food delivery per capirne potenzialità e limiti. Il report parlava dettagliatamente anche dell’Italia, dove Just Eat era presente da un anno: In Italia il mercato delle ordinazioni di cibo via internet era due anni fa il 3,5 percento del totale. Un report di un anno dopo, questa volta curato da Dealroom, determina una crescita dell’1,5%. Questo vuol dire che le società di food delivery e i 10mila fattorini che ci lavorano sono il 5% del mercato complessivo delle consegne a domicilio. Oggi le stime più ottimistiche, considerata la crescita del mercato, vedrebbero le ordinazioni online al 7-10% del mercato totale
Chi determina il restante 90%? Le classiche pizzerie sotto casa, spiegano i report, quelle che si raggiungono telefonicamente e i loro fattorini che guadagnano i 50 euro a serata, spesso a nero, e che è impossibile tracciare, né fare emergere.
Perché le multinazionali del food delivery sono in rosso? Chi le finanzia?
Un mercato giovanissimo, che non ha ancora cominciato a marciare davvero. Spesso alla maggior parte delle persone risulta controintuitivo che le nuove multinazionali del digitale siano in rosso da anni eppure siano considerate dei giganti quotati addirittura in borsa. Uber, Twitter, Lyft sono alcuni esempi. Queste società sono diventate grandi spesso grazie alla scommessa di investitori privati che ne hanno riempito le casse con tantissimi soldi, miliardi di dollari, in cambio di azioni, e con la scommessa che prima o poi andranno in utile permettendo loro di recuperare le perdite e farci molti soldi. Ecco perché possono diventare dei giganti rimanendo per anni in rosso (Uber non genera ancora utili). È quello che è successo a Facebook, a Linkedin.
Come arrivano i soldi a Foodora, e le altre
Foodora è stata comprata nel 2015 dal gruppo Delivery Hero. Da questa è finaziata. Il gruppo ha registrato nel 2017 ricavi per 544 milioni, ma è in perdita di 245 milioni. Il pareggio dovrebbe arrivare quest’anno, poi la crescita. Dove prende questi soldi Delivery Hero? Nel settembre 2017 ha raccolto 660 milioni dal fondo Nasper, lo stesso che sei mesi prima gliene aveva versati 440, due anni prima 110 con Rocket Internet e così via. E dal 2018 gli investitori cominceranno, forse, a ripagare la loro scommessa (dati Crunchbase). È attiva in 40 Paesi, ma è quasi ovunque in rosso. Deliveroo, altro nome, sorte analoga: è andata in pareggio nel 2016, con perdite pari ai ricavi, 144 milioni di euro, ha in pancia circa 800 milioni di investimenti da diverse società di venture capital (dati Crunchbase). Just Eat è danese, ma sede a Londra e macina molto rispetto alle altre, ma la Deutche Bank lo scorso marzo ha declassato l'investimento nella società per la sua difficoltà a generare utili.
Che cos’è la gig economy o l’economia dei lavoretti?
L’origine è piuttosto dibattuta, ma su una cosa sono tutti concordi: le aziende della gig economy (in italiano economia dei lavoretti, da gig, lavoretto appunto) non sono nate per creare normali posti di lavoro. Ma per dare ad alcuni la possibilità di arrotondare. Sono aziende per le quali promettere un full time non ha senso: lavorano spesso alcune ore al giorno, quando si pranza o quando si cena, soprattutto di sera. L’arco temporale in cui si svolge il lavoro è ridottissimo.
È quello che accade nel food delivery.
Un buon esempio ce lo fornisce un articolo del Corriere della Sera: “Prendiamo una cena recapitata a casa. Il costo è di 30 euro. In realtà 21 finiscono al ristorante, 9 alla piattaforma che ha agganciato l’oridine e gestito la consegna (il 30%). Di questi 9 euro, 4 servono per pagare il lavoratore, 4 sono le spese di marketing e gestione. Alla fine, alla piattaforma questa consegna frutta un euro. A fare la differenza quindi è il valore del pasto: più è alto, più i ricavi aumentano”. Ma in realtà anche il numero delle consegne e la grandezza della flotta dei rider.
Il lavoro e i lavoretti
L’Us Bureau Labor Statistic, l’istituzione che tiene il polso del mercato del lavoro negli Stati Uniti, ha tuttora molta difficoltà a capire il numero esatto di lavoratori nel settore, ma sa che in america ci sono circa 10 milioni di freelance, e tra questi sono considerati anche i rider. In un report pubblicato la scorsa settimana, si dice che il 70% dei dipendenti è interessato a fare dei lavoretti per queste piattaforme, per avere un po’ di soldi in più a fine mese. Il trend è in crescita enorme in Cina. Ma nessuno si sognerebbe di considerare quello il proprio lavoro principale.
Ma questo giudizio sembra riguardare anche l'Italia. Il capo di Foodora Italia al Corriere ricorda una ricerca dell'Inps dove si spiegava che il 50% dei rider sono studenti, per il 25% è un secondo lavoro, e un altro 10% lo considera un lavoro di passaggio. Un modo per guadagnare qualcosa, prima di trovare un lavoro migliore.
Di contro, spiega Di Maio, i rider sono il simbolo di una generazione tradita. Quella dei ventenni e dei trentenni. E che si impegnerà per fare in modo che in Italia non ci siano più sfruttamento e precarietà del lavoro. Ma, raccontano i rider intervistati in questi mesi dai media, e ai report, è spesso l’assenza di un lavoro stabile, magari il lavoro per cui si è studiato, che induce questi ragazzi a cercare di sbarcare il lunario con i lavoretti delle consegne.
Il problema quindi potrebbe essere più generale e esteso che quello, pur esistente e urgente, di un settore piccolo e incerto come quello dei fattorini.
La potenza mediatica del nuovo schiavismo digitale
È davvero difficile farsi un'idea sulle dinamiche del lavoro e dello sfruttamento del lavoro di queste aziende.
In questi anni abbiamo visto spesso i riders in televisione: incappucciati per non farsi riconoscere, la voce modificata, ragazzi e ragazze. Li abbiamo sentiti mentre raccontavano la loro vita su due ruote, i rischi. Abbiamo imparato che sono governati da un algoritmo, proprietario di società con sede all’estero, multinazionali arrivate in Italia per conquistare un mercato vergine e sfruttarne le debolezze, come la cronica mancanza del lavoro. Ci siamo sentiti vicini a loro quando hanno raccontato che il loro lavoro è valutato a like e stelline, come un post su Facebook o un tweet, dalle persone a cui consegnavano un hamburger o del sushi, e che da quel like poteva dipendere il futuro del loro lavoro.
Gli elementi per odiare chi offre queste opportunità di lavoro ci sono tutti. L’algoritmo, le multinazionali, il lato oscuro della tecnologia, società con sedi all'estero, che generano utili su un lavoro duro, sottopagato e senza tutele, fatto da ragazzi che consegnano il cibo a casa per la comodità dell'utente.
Ma a ben vedere l’algoritmo non “governa” loro, ma traccia gli spostamenti e indica quale potrebbe essere la prossima consegna. Mentre la logica del giudizio è tutta dell’utente, perché sono esseri umani in carne ossa e pensieri che cliccano su stelline per giudicare il lavoro dei fattorini, non l’algoritmo, che non giudica, calcola.
Chi potrebbe guadagnare e chi perdere dall’operazione dignità di Di Maio
Il capo di Foodora l’ha detto chiaramente: così rischiamo di dover chiudere. Non è l’unico ad averlo pensato. Off the record è quello che si sente dire più spesso dai manager italiani di queste società.
Ma le attive in Italia non sono solo le 5 chiamate al ministero da Di Maio. Ce ne sono almeno altre 15, più piccole e tutte italiane. Alcune di queste con condizioni di lavoro come la paga oraria fissa (pagare un rider un tot di euro, si pensa possano essere 15, a prescindere dal numero di consegne che fa, per un numero di ore non definito ma non inferiore a 4) molte potrebbero essere costrette a chiudere.
"Non possiamo permetterci di pagare un rider anche se non lavora"
Una di queste è Prestofood. È molto attiva nel sud Italia, di base è a Catania, e ad Agi il suo amministratore delegato Guido Consoli, 25 anni, aveva detto di essere “abbastanza favorevole ad una regolamentazione dei riders”, ma con un margine del 25% le aziende come la sua “non possono sopportare le spese dei contratti subordinati. Sarebbe impossibile e poi il rider ha un problema di fondo, lavora per 3/4h ma non si prevede mai quello che la mole di lavoro svilupperà per lui. Dovresti pagarlo vuoto per pieno con una retribuzione fissa mensile ma se non esegue nessuna consegna?”.
Il rischio individuato da molti è che l’operazione dignità “risolva la questione dei riders cancellando la possibilità che in Italia ci siano lavori come quello dei rider: niente più rider ma disoccupati”.
"Ci considerano schiavisti del Novecento, in realtà siamo tutti in rosso per pagare i dipendenti"
Non è l’unico. Un’altra società di food delivery italiana, Moovenda, sempre ad Agi cerca di chiarire un aspetto piuttosto centrale. A parlare è il suo amministratore delegato Simone Ridolfi, romano, 30 anni: “C’è un equivoco che riguarda i nostri margini. Sembra che siamo imprenditori del primo novecento che schiavizzano i fattorini. Di fatto tutte queste società sono in rosso e buona parte del motivo è che costano tanto i fattorini”. Non li si può pagare di meno, “perché anche noi teniamo alla dignità di chi lavora”, 12,5 euro l’ora per i fattorini di Moovenda, ma l’azienda ha cercato di ottimizzare le consegne migliorando l’algoritmo proprietario.
“Molti nostri concorrenti lavorano dividendo i rider per zone della città. Noi non abbiamo zone, ma l’algoritmo calcola in base a dove si trova il fattorino in un dato momento qual è la consegna più prossima”. A Moovenda, spiega Ridolfi, la legge di Di Maio potrebbe pure andare bene e favorirne il business perché loro grazie al tipo di tecnologia che ha sviluppato il fattorino non ha mai tempi morti, e può permettersi già una paga oraria più o meno fissa.
Ma per un’azienda che ne potrebbe guadagnare, altre potrebbero perdere. E forse chiudere. Molte di queste sono italiane, mentre le multinazionali guarderebbero semplicemente altrove, lasciando i riders senza lavoro. Quello che uscirà dal tavolo del ministero potrebbe determinare la fine di alcuni business. Di Maio si è detto interessato a fare in modo che queste aziende crescano ancora e creino altri posti di lavoro. Su quella linea tra crescita e tipologia di lavoro creato si gioca tutta la partita del settore.