Gli italiani sono sempre più consapevoli delle loro tracce digitali, ma ancora poco inclini a leggere i termini di servizio delle app che utilizzano. A rivelarlo è una ricerca sui Big Data realizzata dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni e dal Garante per la Protezione dei Dati Personali, presentata a Roma l’otto giugno. Secondo i dati raccolti, un sesto degli italiani è al corrente del fatto che le proprie informazioni sono utilizzate dalle aziende. Tuttavia ancora il 33 per cento degli intervistati non legge le condizioni di utilizzo delle app, mentre il 54 per cento le legge solo parzialmente.
Ogni volta che installiamo un’app sui nostri smartphone, questa richiede delle autorizzazioni per accedere a dati o funzioni dei dispositivi. Dalla ricerca sui Big Data emerge che gli utenti hanno acquisito maggiore confidenza con questo tema, e infatti sei su dieci sono al corrente che la funzione di geo-localizzazione consente a un software di identificare precisamente la posizione del dispositivo. Il 49,2 per cento degli intervistati invece dichiara di essere al corrente che tali app possono accedere a funzioni particolarmente sensibili del dispositivo, come la fotocamera, il microfono e la rubrica.
Acquisizione, elaborazione e cessione a terzi: secondo l’indagine tre quarti circa degli intervistati ha manifestato la propria disponibilità a rinunciare ad alcuni servizi e app gratuite per tutelare i propri dati. Tuttavia solo la metà accetterebbe di pagare per servizi e app a fronte di un minore utilizzo dei propri dati.
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Ma oltre al comportamento degli utenti nel mondo delle app, dall’indagine emerge anche un rapporto tra il costo di queste e la quantità di dati raccolti. Come dimostrato, esiste una correlazione diretta fra il costo delle app e la loro invasività nella sfera digitale dell’utente. Se sul totale delle app gratuite distribuite sul Google Play Store (quasi un milione, per un 84 per cento del totale), i permessi richiesti sono in media 6,4, le app a pagamento richiedono in media 3,8 permessi. Questo risultato, sottolinea Agcom, “mostra con chiarezza, e in modo statisticamente significativo, l’esistenza di uno ‘scambio implicito’ del dato tra utenti da un lato e sviluppatori App e piattaforma dell’altro, circostanza che incide sulle scelte del modello di business e, in particolare, sul dato come bene economico”.