Nei giorni scorsi ha tenuto banco una polemica sulla riduzione, registrata a maggio, degli acquisti di titoli di Stato italiani da parte della Bce. I numeri sono chiari: Francoforte il mese scorso ha acquistato bond tricolori per 3,6 miliardi, in calo rispetto ai 4 miliardi di aprile.
Una flessione che ha riguardato anche il debito di Francia, Austria e Belgio ed è stata compensata da acquisti più massicci di bund tedeschi. Il risultato è stato un allargamento del famoso spread, ovvero la differenza tra il costo che paghiamo noi per indebitarci e quanto paga la Germania che, per via delle sue solide finanze, ha costi di indebitamento bassissimi e viene quindi presa come punto di riferimento.
La deputata del M5s Laura Castelli aveva sottolineato la variazione, lasciando intendere che la Banca Centrale Europea avesse così voluto manifestare la propria ostilità nei confronti del governo giallo-blu allora in via di formazione. A sostenere questa tesi non era stata però la sola Castelli, bensì nientemeno che Peter Spiegel, firma di punta del Financial Times.
A rispondergli, su Twitter (perché la disintermediazione vale anche per le banche centrali) è stato Michael Steen, il capo della comunicazione dell'Eurotower, che ha spiegato come si trattasse di un calo di natura tecnica, dovuto alla necessità di rifinanziare numerosi titoli tedeschi in scadenza. Peraltro la Bce aveva comprato una quantità ancora minore di titoli italiani (3,4 miliardi) anche a gennaio e a marzo, senza causare scossoni sui mercati. Nondimeno, in termini percentuali sul totale degli acquisti è stato il dato più basso dall'avvio del 'Qe': il 15%.
Non solo, il terremoto finanziario era avvenuto nei giorni del mandato a Carlo Cottarelli e le acque si erano placate con il nuovo incarico a Conte. Perché, molto banalmente, quel che temevano gli investitori non era l'esecutivo Lega-M5s, per quanto permangano i dubbi sul come manterrà impegni elettorali così costosi, ma la fase di estrema incertezza che si sarebbe aperta con un governo tecnico senza sfiducia che avrebbe dovuto traghettare il Paese a elezioni anticipate, magari in ottobre.
Un vertice cruciale
Guardare con preoccupazione all'istituto guidato da Mario Draghi è però decisamente giustificato: sulla carta il programma di quantitative easing è destinato a terminare il prossimo settembre. L'ammontare degli acquisti di titoli di Stato di Paesi dell'Eurozona previsti dal programma, avviato nel marzo 2015 al ritmo prima di 60 e poi di 80 miliardi di euro complessivi al mese, era già stato ridotto a 30 miliardi di euro mensili. Ma a settembre potrebbero essere chiusi del tutto. E decidere se rispettare la scadenza prevista o estendere ulteriormente le operazioni sarebbe esattamente il tema sul tavolo del prossimo consiglio direttivo della Bce, che si terrà il 14 giugno a Riga, rivela Bloomberg.
Ciò spiega benissimo perché gli investitori guardassero con tanto nervosismo a elezioni anticipate in autunno. C'era il serio rischio che Draghi chiudesse i rubinetti con un'Italia ancora senza un governo nel pieno delle sue funzioni in grado di elaborare una strategia per convincere i mercati a continuare a finanziare il terzo debito pubblico del mondo senza il salvagente del 'quantitative easing'. Spetterà ora al governo Conte studiarla. Perché è assai probabile che non ci sarà nessuna estensione e a settembre ognuno dovrà cavarsela senza Francoforte. E i segnali giunti in questi giorni da alcuni alti dirigenti della Bce non promettono nulla di buono.
La parola ai falchi
I Paesi che più guardavano con ostilità al 'quantitative easing' e ne ritardarono il lancio - a partire dalla Germania - non sembrano intenzionati a fare sconti. Non solo il 'Qe' potrebbe finire a settembre ma i tassi di interesse potrebbero non essere destinati a rimanere ai livelli attuali, cioè zero, "molto oltre" la fine del programma, come ha promesso Draghi. Due 'falchi' come il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, e il suo collega olandese, Klaas Knot, si sono detti convinti che l'attuale incremento dell'inflazione (farla salire è l'obiettivo formale del 'Qe') consenta di aumentare il costo del denaro già a metà dell'anno prossimo, che le aspettative dei mercati di una chiusura del 'Qe' entro fine anno sono "plausibili" e che il programma andrebbe in ogni caso chiuso "il prima possibile". Il capo economista di Francoforte, Peter Praet (considerato invece una "colomba") ha poi confermato che il prossimo direttivo "dovrà valutare se i progressi sono stati finora sufficienti per garantire un graduale smantellamento degli acquisti".
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Perché tanta fretta?
Secondo alcuni analisti questo sì è un messaggio per Roma. Un messaggio molto chiaro, a fronte del dispendioso programma giallo-blu (flat tax, reddito di cittadinanza, niente aumento dell'Iva, almeno 5 miliardi all'anno per modificare la legge Fornero): iniziate subito a darvi una regolata perché tra poco la festa finisce. "La mia prima reazione alle parole di Praet è stata domandarmi il perché di tanta fretta", dichiara a Bloomberg Gilles Moec, un'economista di Bank of America Merrill Lynch, "non vogliono correre il rischio di vedere la loro politica monetaria presa in ostaggio. Quindi stanno dicendo che è finita". "Il deficit sembra destinato a salire e l'Italia ha bisogno di attrarre nuovi investitori", afferma Christoph Rieger, strategist dello stesso istituto, "i mercati dovrebbero prepararsi all'annuncio del 'tapering' (ovvero, la progressiva chiusura del 'Qe', nda) già dalla prossima settimana. L'allargamento dello spread di mercoledì ci da un assaggio di quel che ci aspetta". Ecco, cosa ci aspetta? Senza piani convincenti per un drastico taglio di debito e deficit, gli investitori chiederanno all'Italia tassi di interesse più alti per comprarne i titoli, il che significa un aumento della spesa pubblica per il debito. E le banche italiane, che di buoni del Tesoro hanno la pancia zeppa, saranno molto probabilmente costrette a cederne parte. Il risultato sarebbe un ulteriore aumento dell'offerta di titoli italiani sul mercato e un nuovo incremento di tassi e spread. Una spirale potenzialmente pericolosissima.
C'è da dire che spesso i falchi fanno la faccia feroce per lanciare un avvertimento che non viene poi seguito subito da una stretta. Ma questa volta potrebbe non essere così. "Pensavamo che le preoccupazioni sui dati del Pil italiano del primo trimestre avrebbero portato a un'estensione", spiuega Jennifer McKeown, capo economista di Capital Economics, "i membri del Consiglio sembrano abbastanza impassibili di fronte alle notizie economiche negative e determinati a non farsi influenzare da quelli che ritengono gli irresponsabili piani fiscali di un governo". Ancora più diretta Lisa Abramowicz di Bloomberg che, in un podcast, ha dichiarato che "la Bce di fatto sta dando il dito medio all'Italia". È ovviamente possibilissimo che al termine del direttivo, in conferenza stampa, Draghi comunichi che nessuna decisione è stata presa e che la discussione richiederà tempo. Ma un avvertimento resta un avvertimento.