Ha fatto notizia, in queste ore, un articolo dai toni insultanti firmato da Jan Fleischhauer sullo Spiegel, una testata spesso non tenera nei confronti del nostro Paese (celebre la vecchia copertina con la pistola sul piatto di spaghetti). L'editorialista si fa portavoce della preoccupazione dell'establishment tedesco per il programma dell'esecutivo giallo-blu, che contiene interventi così costosi da far potenzialmente deragliare i conti pubblici italiani fuori dai parametri di Maastricht. Cosa verissima. Così come è vero che il nostro Paese ha un grave problema di evasione fiscale che non ci aiuta a tenere le finanze in ordine. E possiamo anche comprendere che a Berlino ci sia nervosismo di fronte alla prospettiva di un ministro dell'Economia presto nelle librerie con un volume nel quale accusa, senza mezzi termini, la Germania di aver concretizzato con l'euro il piano di dominio che Adolf Hitler aveva fallito con i carri armati. Una cosa, però, sono le critiche, per quanto virulente, una cosa sono gli insulti.
"Almeno i mendicanti dicono grazie"
Con toni talmente accesi da far sembrare l'articolo vergato in stato di ebbrezza, Fleischhauer ci dà degli "scrocconi" e scrive: "Come si dovrebbe definire il comportamento di un Paese che prima chiede qualcosa per lasciarsi finanziare il suo proverbiale 'dolce far niente', e poi minaccia coloro che dovrebbero pagare se questi insistono sul regolamento dei debiti? Chiedere l’elemosina sarebbe un concetto sbagliato. I mendicanti almeno dicono grazie, quando gli si dà qualcosa". Per l'autore le critiche al rigorismo tedesco sono un "ricatto": "Se gli italiani decidono di non voler assolvere ai loro pagamenti, l’euro è alla fine e la Germania perderà tutti i soldi impegnati per salvarlo".
Attacco a Draghi (l'ennesimo)
Fleischhauer ne ha anche per il presidente della Bce, Mario Draghi, sostenuto da Angela Merkel ma inviso all'ala rigorista rappresentata dal presidente della Bundesbank, Jens Weidmann e dall'ex ministro delle Finanze, oggi presidente del Bundestag, Wolfgang Schaeuble. Secondo lo Spiegel, dopo l'adozione del quantitative easing e il famoso "whatever it takes", a Draghi "non resta altro che continuare la sua politica perché ogni rialzo dei tassi porterebbe lo Stato italiano all’incapacità di pagare". In realtà, la maggiore colpa della Bce è stata quella di lanciare il piano di acquisto di titoli di Stato troppo tardi, a buoi in buona parte già scappati dalla stalla, laddove la Fed americana era intervenuta subito consentendo agli Usa di rialzarsi in fretta dalla più grave crisi finanziaria dalla Grande Depressione. Ma non era stata certo colpa di Draghi, l'uomo che ha salvato l'eurozona, bensì dell'estenuante braccio di ferro tra lui e la Bundesbank, che voleva bloccare il piano a ogni costo.
Accuse che fanno acqua da tutte le parti
Gli strali di Fleischhauer non sono solo reprensibili nei toni. Sono del tutto errati da un punto di vista economico, rilanciando lo stereotipo dell'operosa Germania che deve pagare per i fannulloni mediterranei. Per confutarli non occorre arrischiarsi in complesse analisi che spieghino come l'introduzione dell'euro abbia favorito l'export industriale tedesco a scapito dei concorrenti che avevano valute più deboli, come l'Italia (anche perché, da un altro punto di vista, la svalutazione competitiva non é di per sé una strategia industriale, ed è tutto merito dei tedeschi se ci battono sul fronte della produttività). Nè è necessario ricordare, numeri alla mano, che il 95% dei 220 miliardi di euro prestati alla Grecia per evitarne il default non è finito al governo ellenico ma alle banche, soprattutto francesi e tedesche (l'esposizione italiana era, invece, minima), le quali avrebbero rischiato di accumulare perdite colossali da un crac di Atene. Basta sciorinare alcuni dati statistici e pochi concetti economici di semplice comprensione. Insomma, per evitare strafalcioni, a Fleischhauer non sarebbe servito un master in politica economica. Sarebbe bastata mezz'ora di ricerca su Google. Per scoprire, ad esempio, che:
- A effettuare in concreto il 'Qe' sono soprattutto le banche nazionali
L'acquisto di titoli di Stato avviato dalla Bce nel gennaio 2015, viene effettuato, in concreto, dalle banche nazionali dei paesi dell'Eurozona. La Bce condivide il peso delle perdite con le banche centrali nazionali per il 20% dei titoli acquistati. Per il restante 80% non c'è quindi condivisione del rischio. Essendo l'Eurotower di fatto partecipata dalle diverse banche nazionali in maniera proporzionale, di questo 20% di rischio condiviso solo una parte non certo soverchia è in capo a Berlino, che è invece la maggiore beneficiaria degli acquisti.
- Se c'è lo spread, lo hanno voluto i tedeschi
Vi immaginate se la California, per indebitarsi, pagasse un tasso di interesse diverso da quello della Florida o dell'Illinois? In Usa il tasso di interesse fissato dalla Federal Reserve è, ovviamente, lo stesso per tutti e cinquanta gli Stati federati, che ogni tanto vanno pure in default senza causare terremoti, dal momento che la Fed assolve quello che è il ruolo più ovvio di una banca centrale: il prestatore di ultima istanza. Nell'eurozona ciò non avviene (o, meglio - il dibattito è complesso - avviene solo in parte). Quindi, sebbene in teoria la Bce fissi un costo del denaro uguale per tutta l'area monetaria, non garantisce automaticamente i debiti di tutti. Quindi le nazioni che condividono la moneta unica sono soggette a costi diversissimi per finanziare il debito, differenza che costituisce il famoso spread, cioè la differenza tra i tassi di interesse sul debito di un dato Paese rispetto a quelli pagati dalla Germania, dove sono più bassi. A questo si riferisce Draghi quando in conferenza stampa ripete spesso il ritornello delle "decisioni di politica monetaria che non vengono trasmesse in modo adeguato".
Tale situazione fu ritenuta poco accettabile dallo stesso Draghi, che lanciò - come strumento estremo - il cosiddetto "piano anti-spread", che non è mai stato attuato, richiedendo appunto condizioni estreme. Il vero elefante nella stanza è però il paradosso di una moneta unica senza titoli di debito unici. Ovvero, i cosiddetti Eurobond, che la Germania non ha mai voluto e garantirebbero, per ovvie ragioni, costi di indebitamento più uniformi nell'Eurozona. Al prezzo, però, di una minore competitività dei titoli di Stato tedeschi, bene rifugio per eccellenza, in termini di sicurezza percepita. Molti euroscettici dicono che l'euro non funziona e andrebbe smantellato. Ma si smantellerebbe un qualcosa che non è mai stato completato: l'euro ha simili disfunzioni perché è un progetto lasciato a metà a causa dell'opposizione di Berlino a una maggiore integrazione.
- L'Italia è, tutto sommato, un Paese virtuoso
Uno dei trasgressori più recidivi dei parametri di Maastricht, i quali prevedono che il rapporto tra incremento del deficit e incremento del Pil resti sotto il 3%, è invece la Francia, che dal 2008 al 2017 non ha mai rispettato il tetto, a volte sforandolo in maniera clamorosa, e senza mai pagarne le conseguenze, rientrando dopo un decennio solo quest'anno. Nello stesso periodo l'Italia ha mancato il target solo nei tre anni dal 2008 al 2010, i più duri della crisi finanziaria. È corretto sottolineare che dietro a questi due pesi e due misure c'è una logica: Parigi ha un debito pubblico più basso di Roma (abbiamo il quarto del mondo in proporzione al Pil: 132%) e ha ritmi di crescita più robusti, tali da consentire, sulla carta, di rientrare nei parametri più rapidamente. Nondimeno, sottolineò un rapporto del Fondo Monetario Internazionale, i parametri di Maastricht vengono rispettati in maniera "diseguale" perché "i Paesi più grandi riescono a ottenere un trattamento preferenziale in virtù del loro peso". Ovvero, quello che può permettersi Parigi, Roma non può permetterselo. La questione, a ogni modo, è un altra: se la Francia ha sforato i trattati per dieci anni senza pagare sanzioni (è di oggi il ritiro della procedura di infrazione), è difficile convincere l'Italia che, se sgarrerà un anno, verrà sanzionata subito.
- Gli italiani lavorano più dei tedeschi
Tra i Paesi sviluppati, la Germania è quello con il minor numero di ore lavorate in media all'anno per lavoratore: 1.363, al trentacinquesimo posto della classifica Ocse. Noi italiani siamo diciottesimi, con 1.730 ore lavorate in media all'anno, tra la Slovacchia e il Giappone. Certo, ciò dipende in larga parte dall'eccezionale produttività dei tedeschi. Ma non ci si può affatto accusare di "dolce far niente".
- L'Italia, in Europa, è un contributore netto
Ovvero, come ricordava sempre Renzi quando chiedeva più flessibilità a Bruxelles, versiamo più di quanto riceviamo, con una differenza pari allo 0,2%. Va detto che a volte i fondi comunitari tornano indietro perché non presentiamo i progetti per spenderli tutti. E va ricordato che la differenza tra entrate e uscite per la Germania, secondo contributore netto dopo l'Olanda, è pari a più del doppio della nostra. È interessante comunque osservare come, tra i Paesi che incassano più di quanto versano, i deficit più sostanziosi vengano registrati dalla 'sovranista' Ungheria di Orban e dai Paesi baltici, al fianco di Berlino nella difesa del verbo dell'austerità con uno zelo degno dei tempi del Reichskommissariat Ostland.
- La Germania ha un debito esterno più alto del nostro
Al 31 dicembre 2017, il totale di debito pubblico e privato dovuto a soggetti non residenti in Germania è pari al 141% del Pil, ovvero 65.600 dollari pro capite. In Italia questa cifra è pari a 42.000 dollari pro capite, ovvero il 124% del Pil.
- Le famiglie italiane sono meno indebitate di quelle tedesche
Secondo i dati Ocse, i debiti delle famiglie italiane sono pari all'88% del reddito disponibile. Tale percentuale è pari al 93% in Germania, che figura comunque tra i Paesi virtuosi. Lunga la lista di nazioni dove i debiti delle famiglie sono superiori al reddito: basti citare Francia (109%), Lussemburgo (172%) e Olanda con un pauroso 276%, superato solo dalla Danimarca (293%).
- La nostra ricchezza totale è quasi il doppio del nostro debito pubblico
La ricchezza totale detenuta dagli italiani è pari a 4.200 miliardi di euro, ovvero quasi il doppio del nostro debito pubblico, che a fine 2017 era pari a 2.256 miliardi di euro.