Ci mancavano anche la criptovaluta fatta in casa e il gangster di Macao noto come “dente rotto”, nella vicenda di Cambridge Analytica. Che aveva già avuto una svolta grottesca (si pensi al servizio della tv Channel 4 in cui l’allora Ceo Alexander Nix propugnava davanti a un giornalista sotto copertura metodi di campagna politica assai poco scientifici e ‘psicografici’ ma di indubbia efficacia, come “l’invio di ragazze a casa di un candidato”). Tuttavia il filone trash ora sta toccando nuove vette.
L’azienda al centro dello scandalo dei 50, poi 87 milioni di profili Facebook comprati dal ricercatore Aleksandr Kogan e in teoria utilizzati per fare campagne elettorali (anche se va ricordato che dell’utilizzo specifico di questi dati sappiamo poco e niente), stava per lanciare una sua moneta digitale attraverso una offerta iniziale di valuta (ICO, Initial Coin Offering). Le ICO sono una nuova modalità di raccolta fondi, molto in auge negli ultimi due anni e poco regolamentata, incentrata sullo sviluppo di criptovalute basate su tecnologia blockchain, la stessa che sta al cuore di Bitcoin. Si lancia una critpovaluta, un token digitale, fondata su una blockchain, un registro distribuito e immodificabile delle transazioni, spesso con l’idea di sviluppare un sistema di pagamento legato a una serie di servizi collaterali. Un settore tumultuoso, volatile, non privo di truffe e truffatori, con cui startup più o meno serie stanno raccogliendo montagne di fondi.
La moneta digitale di Cambridge Analytica avrebbe dovuto consentire di salvare in forma digitale dati personali, e anche di venderli, almeno secondo il sommario resoconto fatto al New York Times da una ex dipendente, Brittany Kaiser, che come vedremo ha anche testimoniato alla Commissione cultura, media e digitale del Parlamento britannico. L’obiettivo sarebbe stato dunque di creare una piattaforma protetta per permettere alle persone di vendere (come? non ci sono dettagli) i propri dati personali agli inserzionisti. Proprio quelli che con l’altra mano Cambridge Analytica acquisiva da ricercatori e da vari quiz e app per profilare milioni di persone. Una contraddizione in termini? O la chiusura del cerchio? “Chi ne sa di più dell’uso di dati personali di Cambridge Analytica?”, ha detto Kaiser al New York Times. “Dunque perché non fare una piattaforma per ricostruire il modo in cui funziona questo processo?”
Ad ogni modo, quale che fosse il funzionamento, il punto è che la società di campagne elettorali e analisi dati sperava così di raccogliere fino a 30 milioni di dollari. Ma il progetto dell’ICO sarebbe stato sospeso con l’esplosione dello scandalo Facebook.
Non era l’unico tuffo nel mondo delle criptovalute compiuto dalla controversa società. Cambridge Analytica si era messa a pubblicizzare i propri servizi di targeting, di profilazione, alle aziende interessate a lanciare delle ICO. E aveva promosso una moneta digitale nota come Dragon Coin. Moneta nata per essere usata nientemeno che dai giocatori di casinò di Macao, un settore economico non esattamente noto per la lotta al riciclaggio (i casinò di Macao nei primi sei mesi del 2017 hanno registrato un boom di transazioni sospette). Per di più tale Dragon Coin, secondo documenti visionati sempre dal New York Times, vedrebbe il coinvolgimento pure di un gangster di Macao, Wan Kuok-koi, uscito di prigione nel 2012, noto come Dente Rotto (Broken Tooth), tra gli sponsor. Per la cronaca, Dragon Coin dice di aver raccolto 300 milioni di dollari, ma sul piano operativo il suo progetto non sembra essere decollato finora.
Dato questo scenario forse non sorprende che Alexander Nix, l’ex Ceo di Cambridge Analytica sospeso a marzo dal Cda, abbia deciso di non presentarsi davanti al Parlamento britannico. Doveva testimoniare alla Commissione cultura e digitale, ma Nix ha fatto sapere che non si sarebbe presentato citando come ragione l’esistenza di un’indagine da parte del commissario all’informazione. Vari osservatori ritengono però che non sarebbe stato un problema. Il commissario all’informazione (Information Commissioner’s Office) è infatti un’autorità di controllo che può comminare multe su temi legati alla privacy, ma non starebbe conducendo una indagine criminale.
Nel frattempo, davanti alla commissione britannica, ha testimoniato Brittany Kaiser, la già citata ex dipendente di Cambridge Analytica. Secondo la donna, la società avrebbe potuto raccogliere dati da più degli 87 milioni di profili Facebook individuati finora perché utilizzava un’ampia gamma di giochini della personalità per estrarre informazioni personali dai social network, e non solo attraverso il quiz progettato dal ricercatore Aleksandr Kogan.