Le dimissioni del principale consigliere economico di Trump, Gary Cohn, contrario ai dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio (rispettivamente al 25% e al 10%) introdotti dalla Casa Bianca, sono state viste come un avvenimento dalla forte portata simbolica. Ovvero, la sconfitta dei fautori del libero mercato e la vittoria del partito del protezionismo, e quindi delle premesse programmatiche sull'onda delle quali l'immobiliarista newyorchese era stato eletto presidente degli Stati Uniti. Fin qui la lettura di carattere politico. Ma, in concreto, quali saranno gli effetti sull'economia Usa delle restrizioni? Ci sarà l'auspicato rilancio del settore metallurgico o si aprirà una guerra dei dazi destinata a innescare una spirale recessiva a livello globale? Qua la questione è molto più complessa e sfumata, come emerge dal dibattito in corso sulla stampa specializzata.
Wsj: "Il più grande abbaglio della presidenza"
Parola del Wall Street Journal, secondo il quale la mossa di Trump è "il più grosso abbaglio della sua presidenza" e "questo aumento delle tasse punirà i lavoratori americani, innescherà rappresaglie che colpiranno le esportazioni americane, a livello interno dividerà la sua coalizione politica, all'estero irriterà gli alleati e minerà le sue riforme fiscali e normative". "I dazi avvantaggeranno solo un pugno di aziende, almeno per un poco, ma ne danneggerà molte di più", prosegue il quotidiano, "l'effetto immediato sarà rendere gli Stati Uniti un'isola di acciaio ed allumino ad alto prezzo. Le compagnie statunitensi aumenteranno i loro prezzi fino quasi ad avvicinarsi ai dazi, rastrellando un po' di quote di mercato. Gli utili aggiuntivi andranno ai manager, sotto forma di bonus più elevati, e agli azionisti, almeno finché i prezzi elevati non colpiranno i loro clienti. A quel punto, verranno colpiti anche i produttori americani".
"Trump non sembra capire", conclude il Wall Street Journal, "che le aziende che utilizzano acciaio impiegano circa sei milioni e mezzo di americani, mentre i produttori di acciaio ne impiegano circa 140 mila. L'industria dei trasporti, compresi aerei e auto, conta per il 40% dei consumi interni di acciaio, seguita dal confezionamento con il 20% e dalle costruzioni con il 15%".
Per il New York Times, "non c'è da preoccuparsi"
"Non preoccupatevi dei dazi di Trump", titola invece il New York Times, una testata che, pur di solito non tenera con 'The Donald', ritiene che la reazione alle misure sia stata "sproporzionata" e legata a un generico "sentimento anti-Trump", laddove i dazi non solo potrebbero non rivelarsi la fine del mondo ma addirittura "avere qualche effetto positivo". "Per prima cosa prendiamoli per quelli che sono: un temporaneo sollievo per settori specifici che stanno affrontando un problema specifico (una sovrapproduzione globala sostenuta dai sussidi dei governi stranieri)", scrive il quotidiano della Grande Mela, "l'America ha già adottato misure simili in passato e non è scivolata nell'autarchia.
Per esempio, i partner commerciali dell'America hanno acconsentito ad aumentare i loro standard di protezione della proprietà intellettuale in cambio di un maggiore accesso al mercato americano in accordi come il Nafta. Nonostante ciò, i fautori di questi accordi si sono sentiti liberi di parlare di "libero mercato", anche se questi accordi hanno imposto livelli di protezione per alcuni settori specifici (per lo più i farmaci e i software) molto più elevati di quelli annunciati per acciaio e alluminio".
In un contesto di sovrapproduzione, pertanto, "i dazi potrebbero fornire un contrappeso contro i sussidi stranieri e proteggere i produttori metallurgici americani finché non viene trovata una soluzione complessiva. Non sono molto fiducioso che l'amministrazione Trump sosterrà una soluzione intelligente ed efficiente a un problema più vasto ma cià non significa che non dovremmo essere felici di avere un po' di tempo per tirare il fiato e trovarne una".
Bloomberg parla di "autolesionismo"
I dazi "sembrano destinati a essere una probabile ferita autoinflitta per gli Usa, anche se non innescheranno rappresaglie dai partner commerciali", afferma invece Bloomberg, "i dazi di solito non sono un buon modo per promuovere l'industria interna. Incoraggiano i produttori americani ad accovacciarsi sotto il muro protettivo dei dazi, concentrandosi sul mercato locale prigioniero piuttosto che sullo studio di come prevalere nella dura e incerta competizione globale. Costringere i consumatori americani a utilizzare i prodotti domestici potrebbe alla fine far diventare l'acciaio e l'alluminio americani sinonimi di bassa qualità".
"C'è inoltre il pericolo che rendere i metalli più costosi colpisca molte più industrie Usa di quante ne aiuti. L'industria delle costruzioni subirebbe il colpo più duro", prosegue Bloomberg, secondo cui è la tecnologia ad aver ridotto l'occupazione nel settore: "La produttività è migliorata anche se la domanda è rimasta più o meno costante. Matematicamente, ciò significa meno posti di lavori per i lavoratori dell'acciaio e dell'alluminio. I dazi non cambieranno questa equazione. Anzi, colpendo industrie come l'auto o la produzione di componenti, le nuove tasse sulle importazioni probabilmente cancelleranno più posti di lavoro di quanti ne verranno salvati".
È soprattutto una questione politica, scrive Forbes
Si tratta "più di una guerra politica che commerciale", sostiene da parte sua Forbes, che spiega come "a prima vista, i dazi erano stati visti come uno schiaffo alla Cina, il maggior produttore ed esportatore di entrambi i metalli. Dopodiché abbiamo tutti appreso che la Cina non è nemmeno tra i primi 10 fornitori degli Usa. Canada e Brasile contano per quasi un terzo di tutto l'acciaio importato dagli Usa, mentre la Cina per un mero 2,9%: Perché stiamo andando contro i nostri partner del Nafta? Ricordatevi che Trump sollevò la minaccia dei dazi all'inizio del settimo round di negoziati commerciali sul Nafta, conclusi il 5 marzo. Trump ha ammesso che i dazi erano di base una tattica negoziali".
"Nessun mercato è aperto al mondo come quello statunitense", aggiunge Forbes, secondo il quale sono invece i concorrenti, a partire dal Brasile, che "sono senza dubbio impegnati in pratiche commerciali inique e addirittura predatorie che stanno danneggiando gli Usa". "Imprese statali che rispondono a obiettivi del governo piuttosto che alle condizioni dell'economia, sussidi che distorcono il mercato, tassi di cambio favorevoli all'esportazione e il dumping premeditato sono tutti fattori che hanno contribuito a rendere più semplice per questa sovrapproduzione contagiare gli altri mercati". Insomma, conclude Forbes, se Trump è protezionista, allora cosa dovremmo dire a Cina, India e Brasile?