Vederli insieme per la prima volta disposti attorno ad un tavolo è un’immagine rara, probabilmente unica da quando in Italia si parla di startup. 40 rappresentanti del mondo dell’innovazione, investitori, business angels, imprenditori, hanno discusso per tre ore su quali dovrebbero essere le strategie che l’Italia deve adottare per ovviare alla cronica mancanza di investimenti in questo settore.
Lo hanno fatto rivolgendosi direttamente ai rappresentanti dei principali partiti politici che si candidano a governare il Paese, nel giorno in cui ufficialmente inizia la campagna elettorale. Ricevendo anche delle risposte concrete. E delle scuse, da parte del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, per non essere potuto intervenire, pur promettendo di essere pronto a collaborare.
Perché gli investitori in startup si rivolgono allo Stato
Eppure per capire il senso di questa giornata, bisognerebbe chiedersi prima di tutto perché questi investitori si rivolgono alle istituzioni. Perché corrono il rischio di essere tacciati di chiedere ‘soldi allo Stato’ per farne di più.
La risposta non è semplice, ma rileggere le parole pronunciate allo Startup Day da Gianluca Dettori, tra i principali attori della digital economy italiana, presidente del fondo Primomiglio, aiuta a chiarirsi le idee: “Dobbiamo ammetterlo, in Italia nessuno può dire di avere guadagnato con un fondo di venture capital, siamo all'anno zero e spiegare quello che facciamo è complicato”, ha detto nel suo intervento, ascoltato da una platea ordinata.
Il venture capital è un investimento ad alto rischio. Buona parte delle startup in cui un fondo decide di investire non porta immediatamente a buoni risultati, e spesso non porta nulla. Ma qualche investimento va bene, e quando va bene è capace di generare un ritorno che ripaga anche gli altri. Perché le startup sono aziende che, quando crescono, crescono tantissimo.
Ora, in Italia l’ecosistema è troppo giovane. Nessuno può dire di avere quella che Dettori chiama ‘track record’, o più facile, numeri che dicano chiaramente che in 10 anni si è guadagnato bene dagli investimenti fatti. Vista così la situazione potrebbe risultare disperata: niente dati, niente ritorni, perché dovrei darti i miei soldi? Qualunque investitore non di settore sarebbe spaventato.
La strategia per ovviare alla 'paura' dei privati
È per questo si chiede allo Stato di farsi attore di una strategia che guardi da qui a 10 anni e contribuisca agli investimenti in questo settore. Un’azione di politica industriale, non dirigista, che invogli l’investimento in questo settore, crei i primi ritorni, guadagnandoci, e alimentando un circolo virtuoso. Soldi che dettori chiama "Il capitale della fiducia", quella che adesso sembra mancare.
L’Italia è partita in ritardo, e va piano mentre gli altri corrono. In Francia lo scoglio della ‘sfiducia’ è già stato superato con un’intervento massivo dello stato, attraverso la BpiFrance, la banca pubblica di investimento francese. Apple è un’azienda che è nata grazie agli investimenti del pubblico in Silicon Valley. E più in generale oggi le più grandi aziende al mondo sono nate proprio dalla scommessa del venture capital, che è stato il sangue che ha irrorato aziende come Facebook, Google, Amazon, Uber, Airbnb, Twitter, Alibaba, Saleforce.
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Tutte le più grandi big company mondiali, ma anche tutte le aziende del digitale che reggono il business globale della digital economy. Ecco perché si chiede allo Stato di intervenire, perché da soli i pochi fondi di venture capital in Italia poco possono, rischiando di far perdere terreno ad un settore che va piano in un mondo che corre. Ma sono soldi pubblici, bisogna stare attenti a chiederli e ad usarli, ha ricordato Mauro Del Rio, altro nome storico del digitale italiano, che chiede per questo motivo ai venture capital di “investire con il pubblico, ma stando lontani dalla gestione dei soldi, di non beneficiarne”.
La proposta: 5 miliardi in 5 anni, un piano nazionale per l'innovazione
Una proposta è arrivata. Nero su bianco, e porta la prima firma di Salvo Mizzi, ex amministratore delegato di Invitalia Ventures, passato a novembre a Principia SGR come general partner, che propone un piano da 5 miliardi in 5 anni da investire in startup, facendo leva dalla creazione di un fondo di fondi di coinvestimento, dai Piani individuali di risparmio e coinvolgendo le grandi idee italiane per azioni concrete di venture capitale: "Il bilancio dei 5 anni che abbiamo alle spalle è negativo - ha detto in apertura dei lavori Mizzi - abbiamo chiuso il quinquennio con dati sugli investimenti che ci pongono ultimi in Europa, dietro Grecia e Portogallo".
Altra frase che fotografa bene un’emergenza, quella che Mizzi ha chiamato “Emergenza nazionale”. La sua proposta è stata sottoscritta dagli investitori presenti in sala, da Andrea Di Camillo (P101), a Claudio Giuliano (Innogest), da Massimiliano Magrini (United Ventures), a Fausto Boni (360 Capital Partner).
Mentre Alberto Onetti, presidente di Mind The Bridge, raccontava attraverso i suoi dati l’incapacità del sistema Italia di creare veri campioni del digitale, gli occhi degli investitori sfogliavano il suo report, scuotevano la testa, indicavano tra loro le classifiche dove l’Italia era sempre nei posti più bassi: per numero di startup solide create, per fondi raccolti, per capacità di crescita.
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"La politica non ci ha capito, abbiamo fallito"
Tra loro Marco Bicocchi Pichi, presidente di Italia Startup, che ha ammesso subito nel suo discorso: “Abbiamo fallito, se i partiti non ritengono oggi le startup un’istanza centrale per il Paese non c’è altra spiegazione: abbiamo fallito”. Bicocchi Pichi è in scadenza di mandato. La sua è la più grande associazione nazionale del settore. La sua ammissione suona come una sconfitta di un settore intero, dopo cinque anni di promesse, di pacche sulle spalle e di startup considerata più una parola da dire in occasione di discorsi pubblici che come asset del Paese.
E a ruota Massimiliano Magrini, presidente di United Ventures, uno dei principali fondi di investimento italiani, rincara la dose: “In questi anni non si è capito a cosa servono le startup, non si è capito che sono un motore di conoscenza e innovazione che fa bene a tutte le imprese, all’intero ecosistema economico”.
Parole che trovano sponda anche in Fausto Boni, che investimenti proficui in startup li ha già fatti con la sua 360 Capital Partner, il quale però sottolinea come “La politica finora è stata totalmente indifferente ai temi dell’innovazione”, strappando qualche applauso, prassi non prevista durante la tavola rotonda. Altro affondo alle istituzioni arriva anche da Giancarlo Rocchietti, numero uno del Club degli investitori, che ammette di aver chiesto più volte la nascita di un fondo di fondi fatto per i piccoli investitori come i business angels “ma mai abbiamo ottenuto risposta”.
La risposta della politica: Calenda
Il mantra è quello, e si ripete da intervento a intervento. Politica assente, sorda e indifferente, occupata più ad accapigliarsi sul qui e ora del dibattito della campagna elettorale perenne italiana, ma incapace di guardare al futuro dell’industria, del lavoro.
Assente per altre istituzioni, il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda ha risposto ad alcune richieste su Twitter. Scusandosi e riprendendo le parole di Layla Pavone (Digital Magics, presente in sala), che ha chiesto una nuova abita di regia per le startup.
Calenda assente, Antonio Palmieri (Forza Italia) Laura Castelli (M5s) e Armando Siri (Lega) presenti.
Forza Italia: "Flat tax aiuterà, portateci le vostre idee"
Palmieri, deputato e responsabile innovazione del partito di Silvio Berlusconi, ha precisato di non voler sparare su quello che è stato fatto da questo governo (“nulla”), ma ha chiesto di “non perdere questo tesoro di proposte” chiedendo alla platea di “formalizzarle, metterle insieme in un pacchetto e di mandarle ai partiti”, mentre si è detto convinto che dal punto di vista operativo la flat tax “aiuterà a semplificare la situazione delle imprese”. Mentre di detrazioni del 50% dell’Irpef ha parlato Armando Siri, della Lega nord.
Movimento 5 Stelle: "Serve una banca nazionale di investimento, modello Francia"
Qualche dettaglio in più sulle proposte è arrivata da Laura Castelli, deputata del Movimento 5 stelle che ha parlato della volontà del suo partito di creare una “Banca nazionale di investimento sul modello tedesco, o francese”, ma anche una “Agenzia nazionale che tenga i fili di una strategia nazionale e tuteli le aziende da operazioni di acquisizione dall’estero”.
È la prima volta che da un partito arriva la proposta di fare quello che in Francia ha fatto la BpiFrance, il motore delle startup francesi che ha portato gli investimenti in startup da qualche centinaio di milioni a 3 miliardi in 4 anni. Il suo intervento è stato tra quelli che in eccezione alla regola ha strappato un applauso alla fine.
Le startup: Dattoli: "Basta fare i democristiani e dare poco a tutti"
Mentre molti applausi li hanno strappati gli interventi degli imprenditori, degli startupper come venivano chiamati in modo un po’ naif fino a qualche tempo fa. Davide Dattoli, fondatore di una delle reti di coworking più estese in Europa, Talent Garden, che ha dato subito la sua ricetta: “Basta fare i democristiani. Basta dare soldi a pioggia a tante startup. Concentriamo gli investimenti in meno aziende, ma che siano in grado di creare i nuovi campioni del digitale italiano”.
Diva Tommei, fondatrice di Solenica, ha invece ammesso di stare cercando di torare in Italia, “Per lavorare qui, abbiamo già gli uffici, ma manca quella velocità che serve per competere". Velocità, ma anche opportunità. O semplicemente qualcuno che ti dia fiducia.
Lo sa bene Giovanni De Lisi, amministratore delegato di Greenrail, startup che ha creato delle speciali traversine in gomma che consentono di produrre energia elettrica al passaggio dei treni, che ha ricordato come i fondi di venture che non hanno mai voluto investire in loro per la paura verso “la nostra tipologia di prodotto. Per fare grandi aziende e portare il proprio prodotto in giro per il mondo bisogna avere il coraggio di investire, noi lo abbiamo fatto da soli con le nostre forze”, senza “avere il supporto del sistema Italia”.
Ecco, a questo dovrebbero servire i soldi del pubblico, che sono soldi di tutti, è vero, ma finanziano quelle idee che guardano al futuro. Di tutti.