Un fungo che si abbarbica alle radici, partendo dal suolo, e poi sale su verso le ampie foglie e soprattutto i caschi di frutti (anche se in teoricamente si tratta di semplici bacche) minaccia di toglierci tutto: dalle canzoni di Harry Belafonte a una delle più famose torte della altrimenti scarna cucina anglosassone, ai dolci ricordi della prima infanzia. Rischia di sparire la banana, frutto esotico per eccellenza ma ormai da generazioni e generazioni parte del nostro essere, della nostra vita quotidiana, di quella che i dotti e i sapienti definiscono la nostra civiltà materiale. Tutto per colpa di questo fungo che sta distruggendo intere piantagioni di banani, riducendo le piante a delle specie di spelacchi rinsecchiti e i loro doni dorati in tristi peduncoli color cenere e fango.
In Asia e in Australia è già danneggiato il 30 percento delle coltivazioni, ma il fungo assassino che in oriente si è manifestato la prima volta non si è accontentato della strage, espandendosi all'Africa e al Medioriente. Dovesse raggiungere i Caraibi e l'America Latina, dove sono curate, coccolate, raccolte ed esportate l'85 percento delle banane del mondo, il disastro sarebbe epocale. Qualcosa di simile, dicono i pessimisti, alla grande epidemia che distrusse i vitigni europei cinque secoli fa, e da allora il nostro vino non è più lo stesso.
Decine di varietà e ne mangiamo solo una
Sia chiaro: non è che tutte le banane del mondo siano a rischio. Ma lo è comunque la varietà a noi più cara, la Cavendish, quella che pesa tra i 90 ed i 200 grammi, leggermente arcuata, che si presenta spontanea in comodi ed estetici caschi attaccata ai quali, ma già staccata dalla pianta, matura e da verde si fa gialla nel corso del trasporto su una Banana Boat in rotta sui mari caldi verso le nostre tavole di occidentali opulenti ed esigenti. Perché le altre banane a noi non piacciono, anche se ce ne sarebbero per tutti i gusti: le varietà, secondo i botanici, sono decine e decine, se non centinaia. Solo che una è troppo corta, l'altra non ha un bel colore, questa è troppo molliccia, quella non resiste al trasporto. Insomma, siamo viziati come bambini e proprio come bambini non vogliamo altro che la Cavendish. Esattamente questa è l'origine del problema.
La Cavendish, infatti, è una varietà senza semi, e questo ha voluto dire moltissimo per la sua affermazione sui mercati. Ma la cosa ha un suo effetto indesiderato, perché notoriamente un qualcosa che non ha semi non riproduce la specie, e questo è precisamente quello che accade.
I banani che la producono, insomma, sono più che delle semplici, delicate piante di serra: sono dei cloni e questo li rende ancor più deboli e vulnerabili di fronte all'aggressione di un rozzo fungo terragno. La sfida tra questo e la scienza umana si è fatta sempre più serrata: ad ottobre la Fao ha annunciato un progetto da 98 milioni di dollari per la ricerca e lo sviluppo di nuovi tipi di banana, nonché per la lotta al miceto che la uccide.
La prima via intrapresa dagli scienziati è la più logica e naturale: tentare nuovi innesti tra la nobile Cavendish e le banane più ruspanti. Se ne tentano, in media, quattro la settimana, ma finora si è prodotto qualcosa di sicuramente più robusto, ma meno delicato al gusto. Del resto il calcolo della probabilità elaborato dagli addetti ai lavori dice che per un tentativo andato a buon fine ce ne vogliono mille destinati al fallimento, per lo meno. Si tratterà, insomma, di una lunga strada da percorrere prima di essere giunti alla meta. Anche se qualche segnale di speranza è arrivato.
Dal Taiwan arriva una speranza
Si chiama infatti Gctcv-219 (nome che difficilmente supererà l'esame dell'esperto di marketing) un tipo di banana che sta prendendo forza a Taiwan. Come spesso si verifica nelle scoperte scientifiche, anni ed anni di pianificazione umana e calcolo elaborato sulla base di schemi ed algoritmi non sono valsi quanto una bella botta di fortuna. Non si sa bene come, ma a Taiwan la Cavendish è degenerata, o si è rigenerata, spontaneamente in un nuovo tipo di banana fungoresistente. Attualmente la coltivano nelle Filippine e la esportano in Giappone. I risultati sono incoraggianti, ma non troppo.
La Gct-eccetera infatti è ancora più dolce della progenitrice, ma non è arcuata. Dritta come un righello, rende sospettoso il potenziale acquirente che storce il naso e cerca ancora la variante stortignaccola.
Inoltre proprio l'essere geometricamente regolare, una circostanza che pur dovrebbe aiutarne la gestione da parte della grande distribuzione, costituisce un grave handicap. La versione tradizionale si dispone motu proprio in modo raccolto, appesa com'è al casco; questa invece si presenta a perpendicolo rispetto all'asse portante del casco suddetto, e si rifiuta di entrare nelle normali scatole di cartone utilizzate da sempre per il trasporto. Quindi delle due l'una: o si storce la banana, o si rifà il pacco: entrambi ipotesi che hanno delle enormi controindicazioni.
Da ultimo si sta percorrendo la via letteralmente più naturale: cercare cioè se nei meandri della biodiversità vi sia a riguardo ancora qualcosa di sconosciuto, ancora da scoprire. Se esistano, cioè, varietà di banani ancora non notati dall'uomo nella sua eterna lotta per il procacciamento del cibo. Alcuni scienziati sono autenticamente tornati alle origini: coscienti che il termine "banana" ce lo ha regalato il portoghese, mutuandolo a sua volta dalle lingue della Nuova Guinea, proprio in Nuova Guinea si sono recati a cercare una nuova specie, cui hanno affibbiato ottimisticamente l'epiteto di Banana Gigante. Altri stanno battendo allo stesso scopo quasi tutte le settemila isole dell'arcipelago delle Filippine. Ad avere un po' di fortuna, ne troveranno una sul ciglio della strada.