di Ivana Pisciotta
Roma - Il Giappone rappresenta un'opportunita' per le nostre imprese, e l'Italia sta attraendo sempre piu' gli interessi degli imprenditori nipponici. Le nostre imprese devono pero' darsi da fare, comprendere anche un nuovo modo di fare 'business' e avere piu' coraggio, il paese del Sol Levante non li deludera': questo il messaggio lanciato da Daniele Di Santo, presidente e fondatore della Japan Italy Economic Federation, organismo nato nel gennaio 2015, vicino alla locale confindustria, che raccoglie molte tra le piu' rilevanti aziende e gruppi finanziari giapponesi con interessi distribuiti tra Italia e Giappone, istituzioni e realtà associative. Le relazioni tra i due paesi sono sempre state ottime, anche se con qualche battuta d'arresto: ad esempio, fa rilevare Di Santo, fino a 15 anni fa il Giappone importava il 95% dell'olio di oliva dall'Italia, ora la percentuale e' scesa al 45% a tutto vantaggio di altri paesi nostri concorrenti come Spagna e Grecia. Cos'e' successo nel frattempo? Eppure il Giappone subisce sempre un certo fascino per la nostra cultura e per le nostre tradizioni e quindi anche per i nostri prodotti. E non solo. Le istituzioni stesse sono interessate ad uno scambio di conoscenze con il nostro paese, ad esempio come dimostra la recente visita organizzata dal comune di Fukuoka, citta' nel sud est del paese, polo commerciale e industriale in costante ascesa, dove e' stata guidata una delegazione di imprenditori anche italiani a conoscere i territori di Yanagawa, Omuta, Yame gia' molto note in Giappone e nella vicina Asia come poli di eccellenza manufatturiera e agroalimentare. Quindi l'Italia resta a guardare? "Non proprio, gli imprenditori italiani sono molto interessati al Giappone, e molti di loro hanno investito e contano di farlo anche se ci vuole un po' piu' di coraggio e di coordinamento", osserva Di Santo che illustra anche scopo e obiettivi dell'organismo da lui presieduto.
"Non siamo la solita organizzazione - spiega - ne' un gruppo che comprende interlocutori autoreferenziali, ne' tantomeno meri osservatori". Il Jjef e' infatti un organismo nato nel gennaio 2015, vicino alla locale confindustria, e si tratta di un gruppo di relazioni e interessi che utilizzando la propria posizione rappresentativa e la rete di conoscenze posseduta, dialoga direttamente con le autorita' sostenendo le istanze dei propri membri. "Il nostro obiettivo - spiega Di Santo - e' quello di sostenere investimenti e non solo, di promuovere il meglio del made in Italy, e rafforzare l'interesse del Belpaese nei confronti di questa antica e prestigiosa cultura asiatica. Interesse che non si limita alle tradizioni, ma anche al know how dei giapponesi in campo tecnologico avanzato e nei piu' diversi comparti economici". L'attrazione e' insomma reciproca, e i giapponesi sono interessati all'Italia come nuovo mercato dalle enormi potenzialita': basti pensare, solo per citare gli ultimi esempi in ordine di tempo, all?acquisizione della Hitachi di Ansaldo STS e Ansaldo Breda, o quella della Mitsubishi di DelClima di proprietà della De Longhi. Il made in Italy in Giappone e' in ascesa, un aumento che e' costante nel tempo anche se non si tratta di un vero e proprio exploit visto che la crisi ha frenato gli investimenti: secondo gli ultimi dati della Sace, ad esempio, se nel 2013 si era registrato un aumento del 6,9% (pari a 6 miliardi), il 2014 ha segnato invece una battuta d'arresto con il -10,9% a 5,4 mld. Ma dall'anno scorso, si sta registrando un rialzo moderato che portera' ad una crescita media potenziale di 2,1 miliardi entro il 2018. Nel 2015, l'export e' aumentato del 3,4% a 5,5 miliardi e salira' quest'anno del 4% a 5,8 miliardi, nel 2017 a 6,1 miliardi e del 5,5% nel 2018 a 6,4 miliardi. Tutto cio' nonostante il fatto che il rallentamento della Cina e di alcuni maggiori partner asiatici abbiano comunque influito sull'andamento degli investimenti produttivi. "Credo che indubbiamente - spiega Di Santo - gli imprenditori italiani abbiano intuito che con la terza potenza economica mondiale, dopo gli Stati Uniti e la Cina, gli sbocchi professionali e le potenzialita' di investimento siano molteplici". In realta', fino a ieri, i principali investitori esteri sono stati gli Usa, i Paesi bassi e soprattutto la Francia: l'Italia sembrava frenata dalla percezione di un mercato chiuso e costoso. "Non e' cosi' - ribatte il presidente di Jjef - in realta' il Giappone e' molto aperto rispetto al passato, ha per cosi' dire ammorbidito lo strumento delle barriere tariffarie e non tariffarie e investire nel paese del Sol Levante. E ora che la Cina e' indebolita e altre realta' del sud est asiatico sono sature, il Giappone puo' rappresentare una svolta". Va ad se' che i due paesi si trovano peraltro ad affrontare complessi problemi comuni, tra cui l'approvigionamento energetico, calamita' naturali, conservazione dell'ambiente e invecchiamento della popolazione. "Si aprono - prosegue Di Santo - interessanti opportunita' di cooperazione in settori innovativi come energie rinnovabili, robotica, prodotti chimici e farmaceutici". Ma c'e' anche qualcosa che frena: colpa anche della crisi, molti imprenditori italiani sembrano bloccati. "C'e' un fattore importante e che invece viene spesso sottovalutato, ed e' un diverso modo di fare business. I giapponesi appaiono piu' rilassati", osserva Di Santo. "Sono abituati a prendere contatto, a studiare le forme di business possibili, non sono insomma propensi ad un tipo di investimento 'mordi e fuggi'". Attitudine tipicamente occidentale e che invece "li pone insicuri, ansiosi e meno disponibili". Questo il 'consiglio' di Di Santo: "Non avere fretta, sedersi attorno ad un tavolo e trovare la quadra. La cosiddetta firma, che rappresenta per gli imprenditori occidentali la cosa piu' importante, e' invece per i giapponesi quasi un dettaglio. Quello che importa e' la sostanza dell'accordo stesso".
Il presidente del Jief prende come esempio il settore alimentare, come tra quelli di eccellenza per cimentarsi in varie forme di business: "A partire dalla meta' degli anni Novanta l'export italiano ha registrato un vero e proprio boom e recentemente anche la cucina giapponese sta registrando un grande interesse". Il settore potrebbe garantire ulteriori e notevoli margini di espansione per i produttori italiani sia per quelli giapponesi: forti anche del successo ottenuto ad Expo, ci sono ora moltissimi imprenditori asiatici che puntano al nostro mercato. Tra migliaia di casi, Mitsuyasu ceo di una societa' che produce sake' (la famosa acquavite giapponese) punta a distribuire il prodotto, che ha battezzato Bijin, anche in Italia dopo il successo ottenuto in Spagna e Regno Unito. Un sake' tutto al femminile, con tanto di cristallo swaroski incastonato nella bottiglia. "Molti sono interessati - dice il manager - ma con nessuno di loro e' stata ancora avviata una trattativa. Trovo un sacco di difficolta' proprio a portare avanti il discorso in termini di business avanzato. E' come se gli imprenditori italiani si sentissero frenati". E ribatte Di Santo: "Coraggio e curiosita' sono le chiavi del successo per chi vuole investire in Giappone, dove ci si puo' contare su ampie riserve di liquidita' e dove anche l'accesso al credito non si trasforma in un vero e proprio incubo, cosi' come accade in molti altri paesi". Tra l'altro, la popolazione giapponese benche' costituisca solo il 3% di tutta l'Asia, in realta' rappresenta ben oltre il 50% di tutta la domanda in ambito retail: insomma per le imprese italiane, che in Italia sono perlopiu' piccole e medie, il Giappone non e' mai stato cosi' vicino. (AGI)