L'avevamo raccontato prima in “Oil” e poi in “We”, da prima della fatidica COP21 di Parigi quando ancora il mondo non si accorgeva così tanto del lavoro delle Parti (nazioni, Ong, mondo associativo e accademico) sollecitate dalle Nazioni Unite, anche se Rio de Janeiro 1992 (Conferenza dei Capi di Stato per l’ambiente) e Kyoto 1997 (protocollo 2005) avevano rappresentato un momento di svolta mondiale, almeno a livello di negoziati diplomatici sull’ambiente.
I Trattati firmati a Parigi a dicembre 2015 furono una pietra miliare, istituendo tutta una serie di iniziative, anche economiche, che non potevano dispiegarsi anno per anno e, non a caso, le COP successive sono state ammantate di un velo di inconcludenza e di rimando fino a farci scrivere, dopo l’ennesima delusione certificata dal Segretario Generale António Guterres nella COP25, che ci sarebbe stato bisogno di una pausa e di una preparazione diversa per la COP26 perché era quella del “tagliando” di Parigi 2015, e non poteva fallire.
Bisogna iniziare a fare i conti con i fatti
La pandemia Covid 19 ci ha messo lo zampino e l’attesa per questa COP26 da poco conclusasi ha prodotto effetti di attenzione mai visti prima, fino al punto di richiamare su di essa l’attenzione del G20, svoltosi in Italia solo una settimana prima, e di tutte le star di organismi internazionali non governativi, a cominciare ovviamente da Greta Thunberg, affiancata da moltissimi altri leader dell’associazionismo come del mondo industriale, politico e dell’attivismo politico in genere.
Le prime pagine di giornali, tv, radio e social network sono state – giustamente – monopolizzate dalle vicende di alti e bassi, trattative, annunci, documenti provenienti da Glasgow e rimbalzati in tutto il mondo. Si può decidere di schierarsi con “il bicchiere mezzo pieno” oppure con quello “mezzo vuoto”, ma spente le luci, finito il clamore, guardando al futuro e non alla cronaca che tutti conosciamo ormai, fuori dalle immagini mediatiche scontate del principio di lacrima del Presidente di COP26 Alok Sharma o del “bla bla bla” stigmatizzato da Greta, bisogna cominciare a fare i conti con gli effetti, possibili o annunciati, immediati o futuri.
Perché, in verità, il “tagliando” di Parigi COP21 è stato fatto e tutte le Parti in gioco, nazioni, coalizioni di Stati, Ong, associazioni ambientaliste e pubbliche amministrazioni, industrie, filiere produttive sanno che ha certamente ragione il Segretario generale a dire che la COP26 si apre adesso: ci sono riconoscimenti, impegni, tempi indicati, modalità di confronto pubblico e privato. Le dichiarazioni generali e generiche, senza dati, senza riferimenti precisi ai rapporti, alle cose scritte e censite, non avranno più alcun valore. E questo d’ora in poi varrà per i decisori (tendenzialmente “mezzopienisti” e per i propositori (ovviamente, tendenzialmente “mezzovuotisti”).
Ma partiamo dall’inizio, ovvero dalla fine (che è la cosa più conosciuta da tutti), cioè dal documento finale varato in una sessione “drammatica” segnata dal “colpo di mano” di India e Cina (che in realtà molti conoscevano da ore, a cominciare dagli Stati Uniti). Diciamo la verità, non si tratta di una novità sconvolgente visto che l’India aveva messo in chiaro la questione legata al carbone (e non solo) sin dal G20 di Roma, riprendendo da un lato le polemiche dei Paesi in via di sviluppo (vecchie ascendenze indiane che derivano anche dai tempi dei cosiddetti “Paesi non allineati”) circa la difficoltà, per Paesi non sviluppati o emergenti, di poter passare ad energie pulite in pochi anni non avendo i mezzi economici o strutturali, e con in più la questione della produzione di carbon fossile da arrestare, essendo il terzo Paese, dopo Cina e Stati Uniti d’America, a produrne di più al mondo.
L’India si è fatta avanti, insomma, sapendo che un bel pezzo di mondo che conta (USA e Cina avevano peraltro annunciato a sorpresa un accordo di cooperazione sulle tematiche della lotta per l’ambiente, proprio due giorni prima, ed escluderemmo che non abbiano parlato anche del problema carbon fossile) non l’avrebbe ostacolata. In conclusione, il documento porta un accordo “storico” sulla necessità di contenere l’aumento del riscaldamento globale sotto la soglia di 1,5 gradi e, in cambio, una chiusura “non immediata” (che voleva dire comunque al 2030 o 2050, nell’ipotesi di mediazione convulsa della fine) delle centrali a carbone. La Cina ha annunciato che la traguarderà al 2060, l’India al 2070. Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? Beh, innanzitutto andrebbe notato come nessun dibattito contrario ai dati-fotografia dell’esistente forniti dalle Nazioni Unite sia stato sollevato, cosa che era successa alle ultime COP con la Russia, l’Arabia Saudita e, sopra tutti, gli USA di Trump. Sembra poca cosa? Non direi, visto che ogni rapporto annuale inserito nell’organismo dell’Onu che se ne occupa (UNFCCC, United Nations Framework Convention on Climate Change) era accompagnato da ondate di dichiarazioni scettiche se non contrarie di molti governi mondiali, anche di prima grandezza.
Coesione, accordo, fiducia: i risultati di quest’anno
Quindi riassumiamo: nessuno contesta il riscaldamento globale; nessuno contesta le misure per ridurlo e bloccarlo; nessuno contesta la fuoriuscita dal carbone e la fine dei sussidi statali o internazionali alle fonti fossili. Non pare cosa da poco! E per assurdo, ammesso che si fosse anche approvato un compromesso per la chiusura delle centrali a carbone nel 2050, non si sarebbe dovuto costruire organismi sovranazionali di controllo? O meglio, rovesciando l’approccio: avremmo dato per sicuro e scontato il rispetto della decisione senza scappatoie in Paesi come l’India e la Cina ma anche, che so, nel cuore dell’Europa carbonifera come la Polonia? A giudicare dai piani sottoposti finora all’UNFCCC, forse è meglio preparare per tempo un controllo fattivo in sede di impegno a medio termine, che sperare che le date di un compromesso solo mediatico vengano rispettate.
Basta scartabellare tra i documenti consegnati in questi anni dai vari Paesi (chi vuole può divertirsi…) per scoprire falle e magagne, ritardi di anni e consegne approssimative di documenti in ritardo o frettolosamente prima delle ultime COP succedutesi da Parigi 2015. Certo, la COP21 dava tempo fino a questa COP26 per indicare Piani Nazionali (o intergovernativi, nel caso dell’Unione europea, che tra tutte ha fatto almeno i compiti a casa), generali e specifici per le aree di intervento. Ma a giudicare dai documenti consegnati, si capiva benissimo che nemmeno le affermazioni generali erano diventate di comune auspicio. Ora è diverso. Le affermazioni di Parigi sono divenute materia comune.
Stare nel contenimento della temperatura sotto 1,5 gradi significa fatti concreti: emissioni tagliate del 45 percento entro il 2030. E perfino nell’uscita dal carbone, andata come abbiamo visto, l’accordo siglato a Glasgow prevede comunque alcune circostanziate, certo limitate, forme di uscita, casomai ci fossero resipiscenze o modalità meno costose e percorribili tecnicamente.
E qui si va dritti ai soldi. Come era prevedibile, soprattutto i Paesi poveri in perenne via di sviluppo ma stavolta anche quelli grandi e che debbono far fronte al cambio di programma (seppure rimandato nel tempo) hanno posto la questione dei 100 miliardi di dollari all’anno promessi dai Paesi “più inquinatori” per aiutare a riconvertire le economie di chi ha difficoltà perfino “ad inquinare”, non avendo uno sviluppo tecnico o economico comparabile. La data di inizio erogazione è quella del 2023, con ipotesi anche di raddoppio della cifra tra il 2025 e il 2030. Come accadrà? Qui probabilmente, ed è una novità di Glasgow, si userà un meccanismo diverso, che l’Unione europea ha già messo in campo col suo “Green Deal”, ovvero i soldi pubblici (in questo caso i famosi 100 miliardi di dollari annui calcolati a partire dal 2015) come leva per un mercato privato oramai pienamente rivolto e ben disposto agli investimenti “green”. Bloomberg in un suo report, già nel luglio scorso, tanto per dare una idea e una stima, e parlando solo della transizione energetica, ipotizzava investimenti per 173mila miliardi di dollari per garantire l’azzeramento delle emissioni nel 2050.
Ricordiamo ancora che “nei dintorni” di Parigi 2015 solo la Germania di Angela Merkel aveva preso le mosse dagli accordi freschi di firma per garantire incentivi miliardari al mercato dell’auto per sdoppiare i modelli, in combustione ed elettrico, dal 2025 e investire sulle colonnine di ricarica. Chiunque oggi apra una rivista di automotive troverà che in soli 6 anni la “pre-Rivoluzione” (la Rivoluzione avverrà solo con l’idrogeno probabilmente) in realtà è già avvenuta e il mercato ha trovato perfino una rigenerazione “consumistica” inaspettata. Che poi questo coincida con le linee direttrici della lotta al cambiamento climatico e in che misura, saranno i risultati a dirlo (i dubbi sulla energivoracità dell’elettrico ci sono), ma non vi è dubbio che anche questo è un dato da tenere presente. E non è l’unico comparto economico che ha vissuto grandi cambiamenti in cinque-sei anni.
Il valore mediatico e gli accordi “collaterali”
La COP26 a Glasgow è stato certamente anche un luogo mediatico di richiamo non solo per gli Stati e le principali Ong ma anche per imprenditori, ricercatori, mondo economico e finanziario. Laicamente e senza falsi moralismi, non era scontato e non era stato così nelle COP precedenti. Gli incontri e gli accordi “collaterali”, sempre da prendere con beneficio d’inventario, hanno rappresentato molta parte del fenomeno mediatico che ha vagato, come topic trend, nel mondo dei social networks per due settimane circa.
Vanno segnalati, tra gli altri, l’accordo “Beyond oil and gas alliance”, guidato da Costa Rica e Danimarca per mettere fine alle fonti fossili (a cui in minima parte economica aderisce anche l’Italia) e quello per limitare le emissioni di metano del 30 percento entro il 2020, firmato da oltre cento Stati e guidato da USA e Unione europea, oppure ancora, ne abbiamo parlato, il vasto e flessibile accordo tra USA e Cina che però, viste le attività economiche in campo a cui si riferisce genericamente, se solo producesse il 10 percento delle ipotesi di lavoro, sarebbe certamente un “driver” importante per l’economia green del pianeta, negli anni a venire. Senza contare gli effetti geopolitici impliciti ed espliciti che invece superano ampiamente ogni soglia di reale interesse politico ed economico internazionale (un occhio a Putin e alle prossime elezioni USA sin da ora).
Riassumendo, dunque, alla COP26 riportiamo: convergenza sull’analisi della situazione (mai approvata da tutti “nero su bianco” prima); impegno comune formalizzato per il contenimento della temperatura globale sotto 1,5 gradi; “rallentata” ma pur sempre confermata la fuoriuscita dal carbone (rallentata ma definita: da “Phasing out” a “Phasing down”, non cancellata); accordi sul metano e l’energia; impegni economici con date indicate e beneficiari.
Certo, si poteva fare di più, ma se si potrà fare di più lo dimostreranno solo i possibili risultati. E per avere dei risultati bisogna poter comparare scelte certe (non promesse e dichiarazioni vaghe) e confrontarle con gli obiettivi. Dunque avere informazioni certe, numeri, figure di investimento e tabelle specifiche di azione. E tutto in tempi indicati.
L’altra parte, non di poco conto, di Glasgow COP26 è stata la determinazione delle modalità di controllo: ogni Paese dovrà fornire all’UNFCCC, e quindi rendere pubblico, il Piano per il clima rispondente agli obiettivi precisati, a carattere quinquennale. Primo appuntamento nel 2025 per il 2030, e nel 2030 per il 2040. Certo, di “bla bla bla” si possono infarcire anche tabelle e relazioni, ma avverrà pubblicamente e si potrà leggerne sul sito dell’UNFCCC, in tempo reale, non più solo occasionalmente e in vista della prossima riunione COP.
La valutazione sugli effetti della COP26, come sempre in questi casi, si farà negli anni, con gli stessi criteri, ovviamente, per cui sappiamo che Kyoto è stato un punto di partenza o Parigi una pietra miliare nel riconoscimento di un problema di tutto il pianeta Terra e Katowice invece (COP24) un semplice passaggio di assestamento. Va aggiunto, per avere un quadro completo, che la forte mediaticità assunta con manifestazioni esterne, centinaia di seminari e iniziative pubbliche e private, ha certamente rinsanguato l’economia turistica post Brexit, ma non sempre ha aiutato una discussione franca e concreta su numeri e azioni. E va detto invece che il G20 svoltosi a Roma, in stretta precedenza e connessione, ha creato un clima di confronto serrato e anche molto focalizzato.
Anche questi sono termini della questione da tenere presente per le prossime edizioni, fermo restando che le COP funzionano nel giorno per giorno delle iniziative e dei controlli e non ha avuto tutti i torti il Segretario Generale Guterres a dichiarare, al termine dei lavori, che la COP26 inizia davvero solo adesso.
* Giornalista, ha collaborato, tra gli altri, con Ansa, Avvenire e Famiglia Cristiana. È stato segretario generale dell’Associazione Italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa. È docente presso l’Università degli studi internazionali di Roma.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di dicembre 2021 di WE World Energy. WE World Energy è il magazine internazionale sul mondo dell'energia pubblicato da Eni - diretto da Mario Sechi - che con il suo portato di esperienza e scientificità si è guadagnato una posizione di grande rilievo nel panorama internazionale dei media di settore.