AGI - Era l’agosto del 2008 e la Cina si presentava al mondo nella sua veste moderna con le Olimpiadi numero ventinove di Pechino, una vetrina della sua volontà e capacità di competere con l’Occidente. La sua economia in pieno boom spingeva sui consumi di energia e in particolare di petrolio che, pochi giorni prima, aveva raggiunto i 140 dollari per barile. Nel 2021 con prezzi quasi dimezzati a 75 dollari, si torna in Asia con le Olimpiadi numero 32 a Tokyo. In questi 13 anni, parecchio è accaduto in Asia e un confronto è utile per capire dove sta andando l’area più importante per i futuri consumi energetici dell’intero pianeta.
Andamenti opposti per Cina e Giappone
La Cina, prima di tutto, ha confermato la sua leadership mondiale relativamente alla crescita della domanda di energia. In soli 8 anni, fra il 2001 e il 2008, aveva più che raddoppiato i consumi di energia, portandoli da poco più di un miliardo di tonnellate equivalenti petrolio (tep) ad oltre 2,2 miliardi, mentre nel 2020 si è portata a 3,5 miliardi, su un trend di crescita che nemmeno la pandemia del 2020 ha interrotto. Come nei primi anni 2000 anche nell’ultimo decennio, Pechino si è affidata in gran parte alla fonte che più le conviene, il carbone, più inquinante ma meno costoso e è ampiamente disponibile nelle ingenti riserve interne, dove lavorano milioni di operai. Sono aumentate, sì, le fonti rinnovabili, al 13 percento del totale, ma il carbone rimane saldamente la principale fonte a copertura della domanda di energia cinese.
In Giappone, il paese più sviluppato dell’Asia, i consumi energetici sono in calo, per la maturità della propria industria e per una popolazione che cala e che invecchia. Dal 2008 ad oggi i consumi del Giappone di energia sono scesi da 520 a 412 milioni di tep.
Il modello occidentale, o meglio quello delle economie industrializzate, che il Giappone rappresenta molto bene, si confronta con quello del resto dell’Asia, dove la crescita economica, indispensabile per i miliardi di persone povere che vi vivono e per quelli che arriveranno, porta a maggiori consumi di energia. I consumi di energia pro capite della maggioranza dei paesi asiatici non arrivano a 1 tep, un terzo dell’Europa o del Giappone, ed è inevitabile che nei prossimi anni tendano a salire. I paesi ricchi, con l’Unione europea in testa, da anni si sono fatti portatori dell’esigenza di abbattere le emissioni di gas climalteranti che derivano dal consumo delle fonti fossili. Annunciare rivoluzioni ecologiche è facile quando i consumi energetici calano, come accade da anni in Giappone e in Europa, invece, per chi è nella fase iniziale di sviluppo, come accade per la gran parte dell’Asia, i modelli che possono soddisfare la dirompente crescita, sono sempre gli stessi, ovvero quelli che abbiamo sfruttato anche noi negli anni del nostro boom, basati su grandi impianti di produzione. Questi permettono di ottenere economie di scala per avere costi unitari bassi e per distribuire a cascata l’energia a valle, prima con giganteschi sistemi di trasmissione, poi con quelli di distribuzione al dettaglio.
Il caso dell’elettricità e la lezione asiatica
Il caso tipico è quello dell’elettricità ed è anche quello più interessante perché, da una parte, coinvolge il tentativo di abbandonare il carbone, la fonte più inquinante, e dall’altra, perché è qui che possono decollare le fonti rinnovabili nuove, quelle che tutti vorrebbero più diffuse, il fotovoltaico e il vento.
Quanto accaduto negli ultimi 13 anni in Asia conferma in maniera netta che i modelli per produrre e distribuire energia elettrica sono sempre quelli, che qualcuno può chiamare tradizionali, e che non possono cambiare molto. Possono diventare più efficienti, vedere applicate nuove tecnologie più pulite, anche con l’apporto della produzione distribuita da fonti rinnovabili, ma la sostanza non cambia. Sono le grandi centrali elettriche, che in Asia funzionano prevalentemente a carbone, che permettono di coprire la domanda di elettricità e di far star meglio miliardi di persone. Altri grandi impianti di generazioni si affidano al gas, per lo più importato, e anche al nucleare, mentre la grande fonte rinnovabile, l’idroelettrico, ha un ruolo importante, ma con il problema che, come le altre rinnovabili, necessita di enormi superfici. Dai grandi impianti di produzione, l’elettricità viene distribuita a cascata nel sistema di trasmissione, i grandi tralicci, arriva alle stazioni di dispacciamento, quelle dove si attaccano le linee elettriche più piccole che provvedono ad arrivare nei centri urbani, o nelle aree rurali, e da lì si allacciano alle piccole reti di distribuzione, che arrivano nelle case o nelle fabbriche. Il principio è che a monte vi deve essere una grande capacità di produzione di potenza, che per unità di tempo diventa energia, che poi può essere distribuita a valle, seguendo leggi fisiche che ricordano anche quelle del sistema circolatorio del sangue dell’uomo. È semplice, la capacità di grande dimensione può essere fornita solo da fonti fossili oppure dal nucleare, mentre le fonti rinnovabili sono disperse, poco concentrate e, aspetto altrettanto importante, non programmabili e non stoccabili. Questa è la ragione per la quale in Asia si continuano a costruire centrali a carbone, nonostante tutti siano d’accordo circa l’urgenza di tagliare le emissioni di CO2.
La regola vale in tutto il mondo: per fare 1.000 chilowatt di fotovoltaico occorrono circa 1,6 ettari di superficie, quasi due campi di calcio, che però producono solo quando c’è il sole (normalmente 1.500 ore l’anno con una produzione di 1 milione e mezzo di chilowattora). Sulla stessa superficie di 1,6 ettari è possibile installare una centrale tradizionale a gas da 800.000 chilowatt che funziona quasi sempre, normalmente 7 mila delle 8.760 ore che ci sono in un anno. Ciò significa che può produrre fino a 5,6 miliardi di chilowattora, 3.700 volte quello che fa l’impianto fotovoltaico, peraltro in maniera intermittente e non programmabile. Certo, i pannelli sono più belli, catturano la luce del sole e sono puliti, ma ciò non è abbastanza per garantire la copertura della domanda dei miliardi di persone dell’Asia, che hanno bisogno di elettricità per illuminare le città di notte, per rinfrescarsi d’estate, per far funzionare le loro fabbriche, i loro centri commerciali, i loro ospedali.
Fotovoltaico, idrogeno e nucleare: corsi e ricorsi storici
Questo vale anche in Giappone, paese che da decenni cerca di ridurre la dipendenza dai fossili spostandosi sulle rinnovabili, sia perché è da sempre privo di risorse interne e deve importare tutto sia perché fu colpito duro dalle crisi energetiche degli anni ’70. Fu uno dei primi a tentare lo sviluppo del fotovoltaico negli anni ’70, grazie alla leadership nella tecnologia dei semiconduttori, tuttavia, i risultati sono parziali ad oggi e la produzione elettrica da fotovoltaico non raggiunge l’8 percento del totale. L’eolico, per ragioni geografiche, non è mai stato importante in Giappone, mentre molto più interessante è stato il tentativo negli anni di sfruttare l’idrogeno quale vettore nel settore dei trasporti. Anche qui, dopo gli entusiasmi degli anni ’70 e un revival negli anni ’90, gli sviluppi sono stati marginali, mentre nel 2021, dimenticate le difficoltà del passato, è di nuovo al centro delle speranze, un po’ come accade in Europa.
Il Giappone si era affidato molto al nucleare, ma il grave incidente di Fukushima dell’11 marzo 2011 ha interrotto questo rapporto di fiducia. L’incidente, vale ricordare, non fu dovuto ad un malfunzionamento dell’impianto, ma al banale errore di avere messo i motori diesel sotto il livello del mare. Quando è arrivata l’onda causata dallo tsunami, i motori sono stati coperti d’acqua, si sono bloccati, il raffreddamento del reattore è cessato è il reattore è esploso. L’incidente scatenò una reazione contraria al nucleare che portò alla chiusura momentanea di gran parte delle oltre 50 centrali nucleari del Giappone, spingendo ancora di più sull’entusiasmo per le rinnovabili. La produzione da nucleare è passata da quasi 300 miliardi chilowattora del 2010, quando contava per il 30 percento del totale della produzione elettrica, a 40 miliardi nel 2020, il 4 percento del totale. Il calo dei consumi di circa 200 miliardi a 1000 del 2020 ha assorbito gran parte della caduta del nucleare, ma in aumento sono stati sia i consumi di gas che di carbone, che attualmente contano rispettivamente per il 35 percento e per il 30 percento della produzione complessiva. Le fonti rinnovabili intermittenti, quelle alla base degli ipotetici nuovi modelli di produzione elettrica, su cui da decenni anche il Giappone insiste, rimangono al 12 percento del totale. Così, a 13 anni dalle Olimpiadi di Pechino, l’elettricità che servirà anche per i giochi di Tokyo continuerà ad essere prodotta dalle grandi centrali elettriche dove sono le fonti tradizionali, quelle che consentono la necessaria densità energetica. Il resto, sono ipotesi e auspici che cominciano, però, ad essere un po’ datati.
* Davide Tabarelli è presidente e cofondatore di Nomisma Energia, società indipendente di ricerca sull’energia e l’ambiente con sede a Bologna. Ha sempre lavorato come consulente per il settore energetico in Italia e all’estero, occupandosi di tutti i principali aspetti di questo mercato. Pubblica sulle principali riviste dedicate ai temi energetici. Articolo pubblicato sul numero di luglio 2021 di WE World Energy.
WE World Energy è il magazine internazionale sul mondo dell'energia pubblicato da Eni - diretto da Mario Sechi - che con il suo portato di esperienza e scientificità si è guadagnato una posizione di grande rilievo nel panorama internazionale dei media di settore.