A fare la fortuna di Katowice a metà dell’Ottocento furono almeno due fattori. Innanzitutto, la posizione geografica nel cuore della Slesia, all’incrocio tra due importanti assi di comunicazione: quello est-ovest, che collegava Leopoli e il confine con l’Impero Russo con Breslavia e poi Dresda, e quello sud-nord, che collega, via Brno, Vienna con Danzica sul Mar Baltico. Katowice, che riceve lo status di città nel 1865, è anche uno dei motori industriali della Prussia in piena accelerazione industriale, poco prima che diventi Impero tedesco. Il carburante di quella stagione è il carbone, come racconta il Walcownia Cynku, il museo della storia industriale della città, che sorge appropriatamente a due passi dal terminal ferroviario.
È ironico che nel cuore del proprio distretto industriale la Polonia abbia deciso di ospitare la Conferenza delle Parti numero 24 (COP), il meeting annuale dell’Organismo quadro delle Nazioni Unite per il Cambiamento Climatico.
La Conferenza di Katowice (3-14 dicembre 2018) sarà un momento decisivo nel dibattito mondiale sul cambiamento climatico. Arriva esattamente a metà strada tra la firma degli Accordi di Parigi del 2015, quando 197 paesi si sono impegnati a contenere il surriscaldamento globale entro i 2 °C, e il 2020, quando è previsto che gli effetti degli Accordi si traducano in azioni dei governi. Il documento di Parigi, infatti, segnava un impegno ancora astratto da parte dei firmatari, che ora sono chiamati a indicare concretamente come intendono ridurre le emissioni di gas serra e limitare il consumo energetico in modo da riuscire a raggiungere quello che viene indicato come “obiettivo del secolo”: arrivare al 2100 senza che le temperature medie del Pianeta mettano a repentaglio la nostra sopravvivenza.
Geopolitica e clima
Sullo sfondo del lavoro attorno alle misure da intraprendere, ci sono le lunghe ombre di uno scontro politico tra Unione Europea e Cina da una parte, e Stati Uniti dall’altra. L’America di Trump è, finora, l’unico paese che abbia chiesto di uscire dagli accordi firmati allora da Barack Obama, in un clima politico interno ben lontano da quello attuale. Già l’anno scorso, quando il Presidente USA aveva ventilato l’ipotesi dell’uscita (con anche un ripensamento a inizio 2018), la Cina si era fatta sentire per bocca del viceministro degli esteri, Liu Zhenmin, che diffidava gli Stati Uniti a comportarsi come con il Protocollo di Kyoto, mai ratificato dagli americani.
A complicare la situazione si sono messi di mezzo i risultati delle elezioni di metà mandato, che hanno consegnato la Camera ai Democratici, ma rafforzato il Senato a maggioranza Repubblicana. In questa distribuzione della forza politica, appare difficile che i Democratici possano fare sufficiente pressione sulla Casa Bianca perché la discussione sul clima e gli Accordi di Parigi possa tornare al centro dell’azione di governo. Inoltre, lo scenario geopolitico attorno al clima potrebbe cambiare ulteriormente con l’elezione di Jair Bolsonaro che, per sua stessa ammissione, vuole far diventare il Brasile un ulteriore ostacolo alla decarbonizzazione mondiale.
Nel frattempo, l'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) ha pubblicato, su richiesta proprio delle parti firmatarie dell’Accordo di Parigi, un nuovo report che tratteggia le conseguenze di un scenario a fine secolo non più a +2 °C, ma a +1,5 °C. Il report è da considerarsi un allarme in piena regola. Occorre agire subito, senza indugiare ulteriormente, altrimenti il tempo rischia di non essere sufficiente.
La Terra del 2018: CO2, acqua, foreste
Gli obiettivi fissati da Parigi e ricordati in modo pressante dall’IPCC nel report di ottobre 2018 passano tutti attraverso un imperativo ormai categorico: la riduzione drastica delle emissioni di gas serra. Secondo l’IPCC, contenere il riscaldamento globale entro il grado e mezzo in questo secolo vorrebbe dire concretamente raggiungere le emissioni zero di gas serra entro il 2050. Un obiettivo che nei fatti pare irrealistico, soprattutto considerando i nostri modelli economici e anche gli scenari geopolitici ed energetici da qui al 2040, scenari che non prevedono in alcun modo l’uscita di scena dei combustibili fossili. I combustibili fossili, infatti, sono i principali colpevoli dell’emissione di gas serra, tra cui il diossido di carbonio, meglio conosciuta come anidride carbonica (CO2).
Ci sono diversi dati che quantificano quanta CO2 viene emessa da attività umane legate alla produzione di energia primaria (elettricità, trasporti). Nel 2017, il Global Energy & CO2 Status Report dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) fornisce la cifra (record) di 32,6 miliardi di tonnellate di anidride carbonica emessa, un aumento di 1,4% rispetto al 2016. Aumento dettato dalla crescita economica mondiale e dall’abbassamento dei prezzi di petrolio e carbone nel 2017. La IEA specifica che l’aumento di emissioni dal 2016 non è uniforme nel mondo: rallentano un po’ quelle di USA, Regno Unito, Messico e Giappone, mentre crescono quelle della Cina (+2%). Ma ad aumentare è in generale la richiesta di energia mondiale: 2,1% in più rispetto al 2016.
Se guardiamo invece a livello territoriale, le emissioni totali di CO2 sono guidate dalla Cina, così come emerge dai dati forniti da Global Carbon Atlas. La Cina è dal 2006 - da quando ha scalzato gli Stati Uniti, da lì stabilmente secondi - il paese che emette più diossido di carbonio: nel 2016, Global Carbon Atlas riporta di 10,2 giga tonnellate emesse dal colosso asiatico, quasi 4 giga tonnellate in più rispetto al 2006.
In ogni caso, il dato che conferma quanto sia urgente limitare le emissioni di gas serra è la quantità di CO2 in atmosfera. La NASA riporta una serie storica di registrazioni effettuate alle Hawaii, presso l’Osservatorio Mauna Loa: a settembre 2018 il diossido di carbonio in atmosfera era di 409 parti per milione (ppm). Nei 400 mila anni precedenti l’età industriale, la CO2 atmosferica è sempre stata sotto quota 300 (il Greenhouse Gas Bulletin della World Meteorological Organization fissa la cifra massima a 280 ppm nell’età preindustriale). Dopo il 1950, la CO2 atmosferica è schizzata ben oltre la quota 300, raggiungendo e superando pure quota 400 ppm. In questo aumento il contributo umano è inequivocabile. Si stima che delle emissioni totali derivate da attività umane nella decade 2006-2015, il 44% della CO2 sia stata accumulata in atmosfera, il 26% nell’oceano e il 30% nel suolo.
Per abbassare questo livello di CO2 nell’atmosfera e porre un freno al riscaldamento dovuto all’effetto serra di questo gas non occorrerebbe soltanto limitare e poi portare a una soglia prossima allo zero le emissioni, ma anche togliere CO2 accumulata, cioè produrre emissioni negative. Sul tavolo ci sono alcuni progetti tecnologici all’avanguardia, ma non solo: un naturale alleato sono le piante, ovvero naturali consumatrici di CO2. Eppure, invece di affrettarci a stringere questa alleanza, a livello globale continuiamo a produrre deforestazione.
I dati sulla distruzione delle foreste, forniti da Global Forest Watch sono sconfortanti: tra il 2000 e il 2017 abbiamo perso 337 milioni di ettari di foreste (-8,4% dal 2000), causando emissioni di 24,7 Gt di diossido di carbonio. Secondo un rapporto del World Resources Institute, solo nel 2017 sono andati perduti 16 milioni di ettari. La perdita di alberi e vegetazione contribuisce drasticamente all’aumento di CO2 in atmosfera, risultando una delle cause più drammatiche del cambiamento climatico.
Il riscaldamento globale, inoltre, ha evidenti conseguenze sulle acque del nostro pianeta. In questo senso, la NASA riporta dati allarmanti. Nell’ultima decade, i ghiacci del Mar Glaciale Artico sono calati del 12,8%. In calo anche l’estensione dei ghiacciai della Groenlandia (-286 Gt di ghiaccio all’anno) e anche quelli dell’Antartide (-127 Gt all’anno).
Diretta conseguenza dello scioglimento dei ghiacci è l’innalzamento del livello dei mari. I satelliti NASA riportano un tasso di crescita media annua di 3,2 millimetri, per altro in accelerazione di anno in anno (un’accelerazione stimata di circa 0,084 mm all’anno, così come indicato da uno studio dell’Università del Colorado citato da National Geographic). Secondo la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), inoltre, il livello medio dei mari globali nel 2017 è di 77 millimetri maggiore rispetto alla prima rilevazione, avvenuta nel 1993. Inoltre, il 2017 è stato il sesto anno consecutivo - e il ventiduesimo su ventiquattro anni di rilevazioni - in cui c’è stato un aumento rispetto al precedente.
Il riscaldamento globale innalza i mari sia perché scioglie i ghiacci ma anche, specificano NASA e NOOA, perché causa l’aumento del volume delle acque marine. Non solo: gli effetti del riscaldamento globale danneggiano anche le acque continentali (fiumi, laghi, torrenti), portando siccità nelle zone interne e mettendo a rischio alluvioni e allagamenti le aree costiere. Per cui gli effetti del cambiamento climatico avranno conseguenze diverse a seconda delle aree: la zona mediterranea in particolare, scrive NOOA, è fortemente indiziata a soffrire di severe e drammatiche carenze di acqua potabile nel prossimo futuro.
Scenari futuri: energie rinnovabili e modelli sostenibili
La IEA ha recentemente pubblicato il rapporto World Energy Outlook 2018, nel quale l’Agenzia esamina e propone tre scenari sul futuro dell’energia e, di conseguenza, sul futuro delle emissioni e dell’ambiente da qui al 2040.
Se il nostro modello geopolitico ed economico non dovesse cambiare da qui al 2040 - non mettendo quindi in pratica nemmeno le INDC, Intended Nationally Determined Contributions, ovvero i contributi previsti stabiliti a livello nazionale, seguenti all’accordo di Parigi - i combustibili fossili tra due decenni occuperanno il 78% della quota di produzione di energia primaria (oggi questa quota è all’81%). Il calo della quota percentuale sarebbe irrisorio. Se traduciamo questo dato in termini assoluti vediamo che le emissioni, da qui al 2040, in questo scenario aumenterebbero di 10 giga tonnellate annue (arrivando alla quota di 42,5 Gt). Di fatto, stando al report IPCC, questo scenario suona come una macabra visione per il futuro del nostro pianeta.
Se invece si metteranno in atto politiche più sostenibili, atte a contenere il peso dei combustibili fossili, le emissioni ne beneficeranno e sarà un primo passo per cercare di contenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi centigradi. Anche perché la chiave, in termini di emissioni ed energia, è esattamente quella di limitare il più possibile l’impatto di carbone, petrolio e gas nell’approvvigionamento di energia. Nella migliore delle ipotesi, la IEA vede la quota di energia prodotta da combustibili fossili (petrolio-carbone-gas) ridursi al 60%. In questo caso, le emissioni sarebbero ridotte in termini assoluti a 17,6 Gt di CO2 annue.
Un calo di circa il 40% rispetto a oggi. Le rinnovabili salirebbero di 20 punti percentuali dal 2017: un salto incoraggiante, ma ancora insufficiente per togliere la maggioranza assoluta ai combustibili fossili. E questo è lo scenario più ottimistico fornito dall’Agenzia.
Tuttavia, l’IEA propone anche uno scenario in cui vengano praticate soltanto le politiche energetiche promesse a livello nazionale dopo Parigi. Questa prospettiva è troppo timida. Se attuate anche fedelmente, queste politiche farebbero letteralmente il solletico ai combustibili fossili, riducendo in quota percentuale solo di 7 punti l’ampia leadership attuale sulla quota totale di energia, che scenderebbe solo al 74%. In questo caso, poi, le emissioni di CO2 aumenterebbero rispetto a oggi: da 32,6 Gt a 35,9 in questo 2040.
Queste simulazioni dell’IEA non lasciano spazio a troppi dubbi. Sul versante energetico, serve un cambio di rotta deciso. Leggeri aggiustamenti del timone non bastano. E l’unico modo per virare in modo efficace è limitare i combustibili fossili. Oggi, le rinnovabili considerate complessivamente (idroelettrico, solare, eolico, ecc…) forniscono 1334 Mtoe (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio) su una domanda totale di energia primaria stimata su poco meno di 14 mila Mtoe. Il nucleare fa circa la metà.
Nello scenario più conservativo, le rinnovabili al 2040 raddoppierebbero, in quello di cambiamento “timido” arriverebbero a 3014 Mtoe mentre nello scenario più sostenibile dovrebbero superare quota 4000 Mtoe. E tutto questo con una retrocessione della triade petrolio-carbone-gas ancora troppo lenta, così come troppo lenta sembrerebbe la crescita delle rinnovabili, anche nelle più rosee previsioni.
Mezzo grado fa la differenza
La pubblicazione dell’ultimo report dell’IPCC ha messo a confronto il futuro del nostro Pianeta se si contiene il surriscaldamento a 1,5 °C rispetto ai 2 °C sui quali si sono già impegnati i firmatari di Parigi. Mezzo grado sembra poca cosa, ma in realtà può fare un’enorme differenza in termini di conseguenze sull’ambiente e sul numero di persone colpite dalle conseguenze del cambiamento. Per esempio, a +1,5 °C, gli esperti prevedono che la copertura di ghiaccio del mare Artico si manterrebbe anche d’estate. A +2 °C, la probabilità di estati senza ghiaccio sono 10 volte maggiori, mettendo a repentaglio l’habitat di orsi polari, balene e molte altre specie di animali.
A essere colpite sarebbero comunque tutte le specie di animali e piante, compresi gli insetti, con i ruoli fondamentali che ricoprono negli ecosistemi del mondo, come per esempio quello di impollinatori. E come più volte segnalato dagli esperti di tutto il mondo, le barriere coralline potrebbero già essere condannate senza appello: nello scenario a +1,5 °C assisteremo a “molto frequenti morti di massa” dei coralli, mentre a +2 °C la loro scomparsa è praticamente certa.
Per quanto riguarda la popolazione umana, a +2 °C la calura estrema che già colpisce alcune aree della Terra diventerebbe più comune, facendo aumentare i giorni con una temperatura eccezionalmente alta. A farne le spese saranno soprattutto le fasce della popolazione più deboli (anziani e malati) e le nazioni più povere.
Un’altra delle conseguenze dell’aumento delle temperature medie è la diffusione di fenomeni di siccità estrema. E tra le zone più colpite, secondo gli esperti dell’IPCC, è da contare l’area mediterranea, dove “l’incremento della siccità sarà particolarmente forte”.
Un altro modo in cui la variazione di temperatura colpirà direttamente l’uomo è con l’innalzamento dei livelli dei mari, che come abbiamo visto è un trend non solo in corso, ma anche in aumento. Anche qui, mezzo grado può stabilire a che velocità procederà questa accelerazione. Oltre a preoccuparci per la scomparsa potenziale di siti archeologici e storici come Venezia, dovremmo preoccuparci della scomparsa di intere isole, soprattutto nell’area pacifica, dove i piccoli stati-arcipelago hanno più volte - ma di fatto senza reali effetti - alzato la voce contro le potenze mondiali, accusate di non prendere sufficientemente in considerazione il pericolo della scomparsa di intere nazioni.
Infine, con il contenimento a +1,5 °C, i raccolti agricoli rimarrebbero più abbondanti. Questo è vero soprattutto per le aree più sensibili all’innalzamento della temperatura perché già fragili, come l’Africa subsahariana, nel Sudest asiatico e in America Latina.
Questi sono i temi sui quali si vedranno gli effetti delle decisioni prese a Parigi, Katowice e nelle prossime COP da qui alla fine del secolo. Lo scenario dipinto dal report dell’IPCC, sommato alle previsioni sulla domanda e sulla produzione di energia dei prossimi anni, mette di fatto il mondo di fronte a due strade da percorrere. Una porta alle peggiori conseguenze e agli scenari più negativi per la vita di milioni di persone in tutto il mondo, ed è quella con una temperatura globale media più alta di 2 °C; l’altra a +1,5 °C è probabilmente più faticosa e, comunque, non eviterà del tutto che molte persone e l’ambiente soffrano drammatiche trasformazioni. Tertium non datur.
Articolo realizzato in collaborazione con Eni.