Dopo l'approfondimento sugli uragani, e quello dedicato al nucleare e alla bomba atomica, un nuovo long form di AGI sul fondo sovrano della Norvegia, il più ricco e potente del mondo. L'obiettivo non cambia: in questa serie di articoli cerchiamo di fare chiarezza, in modo semplice e il più esaustivo possibile, sui grandi temi di attualità. Come metodologia di lavoro abbiamo scelto di mettere in campo le competenze che stiamo sperimentando ormai da un anno nei campi del data journalism e del fact-checking. Quello che vi apprestate a leggere è dunque un approfondimento condotto in pool dai nostri giornalisti con i colleghi di Formica Blu (Elisabetta Tola e Marco Boscolo) e di Pagella Politica (Giovanni Zagni e Tommaso Canetta). L'articolo può essere letto dall'inizio alla fine, oppure, andando direttamente alle sezioni di interesse, cliccando sui titoli del sommario che trovate qui sotto. A questa inchiesta hanno collaborato anche Giandomenico Serrao e Alessandro Galiani della redazione economica di AGI Contenuto realizzato in collaborazione con Eni.
Un'immensa ricchezza per pochi
Fondi sovrani, i forzieri degli Stati
Dalle foreste al petrolio
L'estrazione amica dell'ambiente
La differenza tra un Italiano e un norvegese
Dalle piattaforme di oro nero alla Silicon Valley
Lo shopping italiano
Un'immensa ricchezza per pochi
Vale mille miliardi di dollari. È il fondo sovrano più ricco del mondo. Quello che consente ad appena cinque milioni e 200 mila anime di vantare una ricchezza pro capite di circa 167 mila euro, di acquisire quote importanti di grandi multinazionali nei cinque continenti, di tradurre i proventi del greggio nei più diversificati investimenti e di porre, alla base di tutta questa fortunata impresa, altrettanti solidi princìpi etici.
Neanche una corona del fondo – stabilisce un decreto reale del 2004 – può essere investita in compagnie che contribuiscano, in via diretta o indiretta, a violare i diritti umani, a uccidere, torturare o privare arbitrariamente della libertà. Dal 2010 l’Ethical Council del Fondo sovrano della Norvegia ha dismesso le quote anche dalle società produttrici di tabacco, con un colossale disinvestimento di due miliardi di dollari. Nel 2014 è toccato all’inquinante carbone: niente più soldi nelle 53 società carbonifere sparse nel mondo dove aveva comprato, e tutto riconvertito a favore degli investimenti nelle società di oil and gas.
Alla fine, come ha ricordato ‘The Economist’ il mese scorso, quando la soglia fatidica dei mille miliardi di valore è stata conquistata, quei cinque milioni e passa di cittadini norvegesi sono oggi proprietari dell’1,3% di tutti i titoli quotati sui mercati mondiali, ben più del fondo sovrano cinese (che oltretutto "rappresenta" quasi un miliardo e 400 milioni di persone).
Mission? Il bene delle future generazioni
Il Fondo ha un motto, leggibile sulla homepage della Norges Bank Investment Management, proprio al di sotto del suo valore espresso in tempo reale e in corone norvegesi. Un motto che ne spiega gli scopi con la migliore delle sintesi: “Lavoriamo alla tutela e alla costruzione del benessere finanziario per le future generazioni”.
L’idea di un Fondo petrolifero fu concepita, nel lontano 1960, dal primo ministro pro tempore Einar Gerhardsen. Ma il sogno apparve concreto solo all’antivigilia di Natale del 1969, quando fu ufficializzato l’annuncio che le acque nazionali serbavano un tesoro d’oro nero: Ekofisk, il più grande giacimento sottomarino fino allora mai rilevato.
L’avventura norvegese del petrolio era davvero una magnifica epopea. Ma, come tutte le avventure connesse al petrolio, se i destini dell’economia nazionale si fossero agganciati troppo al corso del barile, i connaturati rischi congiunturali li avrebbero irrimediabilmente condizionati. Così nel 1990, a fronte anche di una popolazione sempre più anziana, il governo decise di istituire un Fondo (“Oil Fund”) nel quale riversare il surplus dei ricavi petroliferi, con investimenti a lungo termine ma utilizzabili in situazioni di necessità. Fino al ’97 si comprarono esclusivamente bond governativi, ma da quella data l’esecutivo decise di destinare il 40% agli investimenti nei titoli azionari.
Il primo gennaio 1998 fu pertanto costituita la Norges Bank Investment Management per gestire il fondo assieme al Ministero delle Finanze.
Un 'impero' che guarda a 77 Paesi
Quando, nel 2006, il ‘Petroleum Fund’ cambia nome in ‘Government Pension Fund Global’ (abbreviato con l’acronimo di SPU, suona in lingua norvegese ‘Statens pensjonfund Utland’), la sua filosofia non muta: “Un giorno il petrolio si esaurirà, ma i proventi messi sul Fondo continueranno a beneficiare la popolazione norvegese”, recita un’altra delle ‘pillole’ che coronano l’impresa. Quella che si è affacciata sui mercati mondiali e ha agguantato asset piccoli e grandi in 8.985 compagnie di 77 Paesi, elevando al 65,1% la quota degli investimenti azionari, cui fa da complemento un 32,4% in obbligazioni a reddito fisso e un 2,5% negli immobili.
Alla fine del 2016 sono tre i Paesi delle cui holding il Fondo detiene i maggiori investimenti: Usa (37,2%), Regno Unito (9,1%) e Giappone (8,3%). Tra le maggiori: Apple, di cui possiede lo 0,86% per 5,2 miliardi di dollari; Microsoft con 4 miliardi (pari allo 0,83%); Nestlé di cui detiene il 2,65% per 5,9 miliardi; Novartis di cui con un investimento di 3,7 miliardi possiede l'1,96%; Royal Dutch Shell con il 2,33% per 5,3 miliardi. Alla stessa data, risultano di tre Paesi le maggiori quote in titoli di Stato, con un investimento per 67 miliardi di dollari negli Us treasuries, per 22 miliardi nei bond giapponesi e per 13 miliardi nei bund tedeschi.
Sono 117 gli investimenti azionari in Italia, come vedremo avanti, per un investimento complessivo che alla fine del 2016 ammontava a 8,1 miliardi di dollari.
Fondi sovrani, i forzieri degli Stati
di Alessandro Galiani
I fondi sovrani sono le casseforti di Stato di alcuni dei Paesi più ricchi, che investono a man bassa in tutto il mondo. Più precisamente sono strumenti speciali di investimento pubblico di proprietà dei governi. Oggi nel mondo se ne contano almeno una ventina. Questi ‘sovereign wealth fund’ sono gigantesche macchine da soldi che hanno assunto, soprattutto dal triennio fra il 2007 e il 2010, cioè a cavallo della crisi finanziaria, un ruolo di primo piano nella finanza mondiale. Spostano migliaia di miliardi di dollari su scala globale, comprando attività finanziarie, principalmente azioni, obbligazioni e immobili, spesso senza farsi notare.
Per i loro investimenti, che si estendono come un’enorme ragnatela, impiegano in genere i proventi delle privatizzazioni, le riserve in valuta estera, i surplus fiscali derivati dalle entrate petrolifere o più in generale dall’export e, ovviamente, gran parte di quello che ricavano dai loro investimenti finanziari. Il primato del fondo norvegese è insidiato dal Fondo dell’Arabia Saudita, che punta a diventare il numero uno del Pianeta a quota 2.000 miliardi di dollari, grazie alla quotazione in Borsa del 5% del gigante petrolifero Aramco, prevista per il 2018.
Altri big sono il fondo sovrano cinese Cic, il Gic e il Temasek di Singapore, il Khazanah Nasional malese, il Kia del Kuwait, la Qatar Investment Authority e l’Abu Dhabi Investment Authortity.
Il termine 'sovereign wealth fund', o fondo sovrano, fu coniato nel 2005 da Andrew Rozanov, manager di Permal, un fondo di investimenti che ha creato uno dei primi hedge fund. Rozanov collabora anche con alcuni dei più importanti giornali economici ed è esperto di economia orientale. E’ stato lui a mettere a fuoco il cambiamento dei tradizionali fondi, che fin dal 1800 gestivano le riserve in valuta estera degli Stati.
Il Kia del Kuwait
Il primo fondo di Stato come l’intendiamo oggi è il Kia del Kuwait, creato nel 1953, prima che il Paese ottenesse l’indipendenza. E’ nato per gestire i futuri surplus di liquidità dopo la scoperta dei primi grandi giacimenti petroliferi.
Il suo scopo è duplice. Da una parte prevede un Fondo per stabilizzare le entrate in petrodollari, che eccedono quelle precauzionali in mano alla banca centrale. In pratica opera sulle riserve, tenendo conto dell’estrema volatilità dei prezzi di mercato di una materia prima come il greggio. Dall’altra gestisce il Fondo per le future generazioni, il quale riceve il 15% delle entrate petrolifere. Uno degli obiettivi del fondo è evitare che i proventi del greggio finiscano tutti in spese per i consumi. Tra i primi investimenti internazionali c’è quello del 1986 in Spagna nel gruppo Torras, una cartiera. Poi gli investimenti vengono diversificati nel settore immobiliare, particolarmente fiorente in Spagna, ma si rivelano un disastro. Uno dei fiori all’occhiello sono le Torri gemelle della Puerta de Europa a Madrid, rimaste incompiute. Oggi il Kia è un colosso con sedi nelle principali piazze finanziarie. Vale intorno ai 600 miliardi di dollari.
Singapore e le sue casseforti
A Singapore il governo crea due fondi sovrani, il Temasek nel 1974 e il Gic nel 1981. L’obiettivo è molto diverso da quello delle monarchie del Golfo: non si tratta di gestire le entrate petrolifere, ma di costruire strumenti che garantiscano e rafforzino il ruolo di Singapore come hub dell’Asia, uno snodo centrale per i traffici finanziari e commerciali della regione. Temasek nasce per gestire gli asset della cantieristica e del settore manifatturiero in precedenza in mano al governo. Si tratta di investimenti che spaziano dalle tlc di Singapore alle linee aree malesi alla Keppel, conglomerata specializzata nella costruzione di porti e infrastrutture. Temasek opera come una grande impresa commerciale privata. Gestisce attività tra i 200 e i 300 miliardi di dollari.
Gic nasce invece per gestire il surplus delle riserve in valuta estera, salvaguardando il loro potere d’acquisto internazionale dall’erosione dell’inflazione, con un orizzonte ventennale. I suoi investimenti hanno un profilo tradizionalmente prudente. E’ uno dei pochissimi fondi sovrani ad avere la tripla 'A' di S&P e Moody’s. Gestisce attività intorno ai 300 miliardi di dollari. Durante la crisi finanziaria del 2007-2010 è stato molto attivo, non sempre con successo. Nel 2007 ha acquistato il 7,9% della svizzera Ubs. Nel 2008 l’8% della statunitense Citigroup, quota poi ridotta al 5%. Nel 2013 fa decollare gli investimenti e il suo portafoglio per il 44% viene investito negli Usa e in Sudamerica, per il 25% in Europa, solo per il 28% in Asia. Quello stesso anno assieme a Snam e Edg, il Gic acquisisce la francese Tggf, società per il trasporto e lo stoccaggio del gas nel sud della Francia.
Il colosso di Riad
Il Fondo sovrano dell’Arabia Saudita gestisce attivita’ per 700 miliardi di dollari ed è un’emanazione della SAMA, la Saudi Arabian Monetary Authority, la banca centrale del Regno. E' il secondo o terzo fondo sovrano del mondo (le cifre sulla quantificazione degli asset dei fondi sovrani sono piuttosto ballerine), ma ambisce a scalzare i norvegesi e a diventare il numero uno. Nasce nel 1971 per gestire il surplus delle entrate petrolifere, controlla anche il fondo pensioni del paese e finanzia i grandi progetti pubblici, dagli oleodotti alle infrastrutture alle raffinerie.
Nel 2018, con il debutto in Borsa di un pacchetto del 5% di Saudi Aramco, il pilastro economico che controlla tutta la produzione petrolifera dell’Arabia Saudita, il fondo sovrano inzierà a percepire i proventi di questa mega-privatizzazione. L’obiettivo è un mega-fondo da 2.000 miliardi di dollari.
Aramco è il maggior produttore mondiale di greggio, ha una capitalizzazione record di 2.500 miliardi di dollari, frutto di una stima molto prudenziale, visto che i suoi barili sono valutati appena 10 dollari, ben al di sotto del prezzo di mercato. Inoltre le riserve di greggio dell’Arabia Saudita, finora tenute gelosamente segrete, dovranno essere divulgate in vista dell’Ipo di Aramco e anche da qui potrebbero giungere sorprese. Il ruolo del fondo saudita è destinato a cambiare anche in vista di ‘Vision 2030’, il piano ideato per ridurre la dipendenza del Paese dal petrolio. Attualmente Riad dipende per il 70% dalle entrate del greggio, ma il piano prevede una drastica diversificazone degli investimenti nei prossimi 15 anni.
La prudenza di Abu Dhabi
L’Abu Dhabi Investment Authority è il fondo sovrano di Abu Dhabi, che fa parte degli Emirati Arabi Uniti, uno Stato monarchico federale che riunisce sette emirati. Abu Dhabi è il più ricco, quello che può contare sulle entrate del gas e del petrolio, mentre Dubai non ha il greggio ma è il porto piu grande del mondo, uno hub che collega Oriente e Occidente, uno dei maggiori centri di investimenti immobiliari.
Il fondo sovrano di Abu Dhabi è nato nel 1976 per gestire il surplus di liquidità delle entrate petrolifere. L’obiettivo era mantenere stabile nel lungo periodo la ricchezza del petrolio con investimenti prudenti: oro, titoli del debito pubblico estero a 20-30 anni. Durante la crisi finanziaria il fondo investe 7 miliardi di dollari in azioni Citigroup, il cui valore crolla negli anni successivi. L’operazione comunque non cambia la linea conservativa degli investimenti, il cui valore si aggira intorno agli 800 miliardi di dollari, cifra indicativa vista la reticenza con cui il fondo fornisce i dati.
L'anomalia Qatar
Il Qatar Investment Authority è nato nel 2005 ed è specializzato in investimenti esteri. È lo strumento finanziario di un paese anomalo, il Qatar, un po' più grande del'Umbria con poco piu' di 2 milioni di abitanti, considerati, con il Lussemburgo, i più ricchi del mondo, visto che il loro Pil pro capite, intorno ai 100 mila dollari, è il più alto del Pianeta grazie agli introiti del petrolio e soprattutto del gas, di cui il Qatar possiede le terze riserve mondiali.
È un Paese molto più potente delle sue ridotte dimensioni, che ha avviato una politica di apertura verso Iraq, Iran e Palestina, ma ospita anche la più importante base militare Usa nella regione. Le sue relazioni con gli altri Paesi del Golfo sono recentemente tracollate: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto lo scorso giugno lo hanno isolato, accusandolo di finanziare il terrorismo. Dietro lo scontro, c’è anche la volontà di spuntare le ali a questo emirato e al suo potente fondo sovrano, diretto da Hamad bin Khalifa al-Thani, che nel 1995 ha deposto il re suo padre e oggi, a 38 anni, è uno degli uomini più ricchi del mondo con un patrimonio di 600 miliardi di dollari.
Il fondo sovrano del Qatar gestisce circa 600 miliardi di dollari, possiede quote di Barclays, Sainsbury's e Harrod's, di Volkswagen, Walt Disney, dell'Heathrow Airport, di Siemens e Royal Dutch Shell, una quota del più alto edificio d'Europa, lo Shard London Bridge, è proprietario della squadra di calcio del Psg, del piano di sviluppo Porta Nuova, dello storico Hotel Gallia a Milano, di complessi alberghieri della Costa Smeralda in Sardegna, dell'ex ospedale San Raffaele di Olbia ed è sponsor del Barcellona. Al-Thani ha anche ereditato Al Jazeera, la tv che dopo l'11 settembre 2001 è diventata l'alternativa araba e terzomondista alla Cnn, creata dal vecchio emiro, che usò il network come megafono delle 'primavere arabe' e dei Fratelli Musulmani, con l'obiettivo di creare una costellazione di capi sunniti al posto degli autocrati laici come Gheddafi, Ben Ali, Mubarak e Assad. Al-Thani ha seguito la politica del padre, ma ha anche virato verso Occidente almeno per un periodo, con investimenti tramite il fondo sovrano e la passione per lo sport, che ha permesso a Doha di aggiudicarsi i Mondiali del 2022.
Il Fondo del Dragone
Il grande fondo sovrano cinese China Investment Corporation (CIC) è una macchina gigantesca, controllata dallo Stato, che investe in tutto il mondo. E’ anche un polmone finanziario della Repubblica Popolare. Di fatto controlla, assieme al Ministero delle Finanze, le principali banche cinesi, che sono tra le più grandi del mondo. Il Cic nasce nel 2007 per diversificare l’impiego delle immense riserve valutarie. Gestisce asset per 653 miliardi dollari e si muove con due subholding: Cic International per l’estero, Central Huijin per l’interno. Nel 2007, appena costituito con 200 miliardi di dollari in cassa, il fondo parte con entusiasmo: sborsa 5,6 miliardi per il 9,9% di Morgan Stanley e 3 miliardi per il 9,4% di Blackstone. Non sono mosse avvedute, visto che si tratta di istituti danneggiati dalla crisi finanziaria. Poi si fa più accorto e comincia a realizzare ottimi rendimenti.
Non esiste un organigramma dettagliato delle partecipazioni, che variano dall’energia alle infrastrutture, dall’immobiliare ai trasporti. Dal 10% dell’Aeroporto di Heathrow al 7% della francese Eutelsat (satelliti), dal 17% del colosso minerario canadese Teck Resources al 12,5% di Uralkali, big russo del potassio. Nel 2015 il CIC fornisce i capitali per l’intesa tra Carnival Corporation e China State Shipbuilding Corporation.
Sui listini di Borsa i manager del CIC mandano avanti società satelliti. Gli investimenti in Italia sono ingenti. Per operare a Piazza Affari spuntano Best Investment Corporation e Flourish. Comprano Eni, Enel, Generali, Unicredit. Su altre Borse sono attive la Terrific e la Stable Investment o la Beijing Wonderful Investment. Nessuna è nel bilancio del CIC. In Europa la piattaforma da cui si diramano gli affari è in Lussemburgo. Qui è registrata Land Breeze, holding da 7,3 miliardi di dollari di asset, tra cui il 30% del polo di esplorazione di Gdf Suez: 3,2 miliardi di valore. Poi c’è il fronte interno con le banche. Per dare un’idea: Industrial and Commercial Bank of China (Icbc) è la prima al mondo per patrimonio, quasi il doppio della più grande banca giapponese (Mitsubishi), la numero due è China Construction Bank, poi c’è Agricultural Bank of China. Il loro controllo è saldamente in mano alla coppia Cic-Ministero delle Finanze. Sempre in Italia, la Cina è presente col CIC e con People’s Bank of China, la banca centrale, che ha varcato la soglia del 2% in gruppi come Eni, Enel, Generali, Telecom, Fiat.
La mappa dei fondi sovrani più importanti
Mappe e visualizzazione a cura di Formica Blu
I fondi sovrani nel mondo sono 80. Molti Paesi hanno più di un fondo e la gran parte è di entità tutto sommato limitata. Solo 15 superano i 100 milioni di dollari. Nella mappa abbiamo rappresentato un solo fondo per paese quando ne sono presenti più d’uno, scegliendo di dare risalto al più ricco (la scheda si visualizza cliccando sul Paese).
Tra i fondi sopra i 10 milioni di dollari di valore, in totale 37, sedici derivano la propria ricchezza dal petrolio, altri sette dal petrolio e gas o petrolio e altro bene, e tredici da una non commodity. Il grafico sottostante mostra la graduatoria dei fondi per valore e (a seconda dei colori) origine delle royalties. In giallo sono indicati i fondi associati al petrolio e in marrone chiaro quelli associati a una non commodity.
Dalle foreste al petrolio
Giovanni Zagni - Tommaso Canetta (Pagella Politica)
Nella primavera 1968, l’ufficio del Ministero dell’Industria norvegese che si occupava del petrolio era composto da tre persone. D’altra parte, nessuno era certo che ne sarebbero mai servite molte di più. Il Paese aveva concesso i permessi per qualche campagna di esplorazione alle società petrolifere internazionali, ma gli sforzi non avevano portato a risultati apprezzabili.
Il 28 maggio di quell’anno, all’aeroporto di Oslo arrivò un geologo iracheno di nome Faruk al-Kasim. Aveva 32 anni e veniva da Londra, dove aveva lasciato un importante impiego nell’Iraq Petroleum Company (Ipc), il consorzio dominato dai britannici che controllava gran parte dei pozzi del Paese mediorientale.
Nonostante la giovane età, al-Kasim aveva alle spalle una lunga carriera. Parecchi anni prima, proprio una borsa dell’Ipc gli aveva permesso di studiare all’Imperial College di Londra. Durante l’ultimo anno nella capitale britannica, a metà degli anni Cinquanta, aveva conosciuto una ragazza norvegese, Solfrid, e si erano sposati nell’arco di pochi mesi.
Quando al-Kasim si laureò tornò in Iraq, e di lì a poco Solfrid lo raggiunse. Dal 1957 e per i dieci anni successivi la coppia visse una vita agiata grazie al lavoro di al-Kasim presso l’Ipc, dove fece carriera fino a diventare uno dei dirigenti.
Nel 1968, la famiglia si trovò però davanti a una decisione difficile, quella che aveva portato Faruk al-Kasim all’aeroporto di Oslo in quel mattino di maggio. Lui e Solfrid avevano appena abbandonato la loro vita nella grande città di Bassora, nel sud dell’Iraq, per trasferirsi a migliaia di chilometri di distanza, in Norvegia. Là si aspettavano di trovare cure migliori per il più giovane dei tre figli, paraplegico.
Dopo la tappa a Londra, Faruk al-Kasim era sulla strada per Åndalsnes, il paese dove abitava la famiglia di Solfrid. Arrivò alla stazione centrale di Oslo intorno alle dieci e mezzo. Il treno per Åndalsnes sarebbe partito soltanto la sera, alle sei e mezzo, e al-Kasim si trovava con molte ore davanti in una città in cui non conosceva nessuno, alle soglie di una vita nuova.
A Oslo appuntamento col destino
Visto il suo passato, il giovane pensò di approfittare della sosta nella capitale per andare al Ministero dell’Industria e chiedere se cercassero qualcuno con parecchia esperienza nel settore petrolifero. Nessuno si aspettava la sua visita, e molti anni dopo al-Kasim ricorda ancora la sorpresa e il disorientamento del personale, quando entrò nell’edificio e fece la richiesta.
Ma di qualcuno con il suo curriculum il Ministero dell’Industria aveva in effetti parecchio bisogno, e di lì a poche ore il geologo stava facendo un colloquio di lavoro. Ottenne il posto: cominciavano ad arrivare i risultati delle esplorazioni petrolifere e c’era bisogno di qualcuno per valutarli. La Norvegia non sapeva ancora che, al largo delle sue coste, c’erano enormi giacimenti. "Mi resi conto presto che la Norvegia poteva aspettarsi di entrare in un’era di sfruttamento petrolifero", ha dichiarato in un’intervista del 2016. Si rivelò un buon profeta: nel dicembre 1969, poco dopo il suo ingresso al Ministero, la statunitense Phillips Petroleum - l’ultima compagnia rimasta a sondare le possibili risorse nella piattaforma continentale norvegese - annunciò di aver trovato uno dei più grandi giacimenti offshore del mondo in un’area chiamata Ekofisk, più o meno al centro del Mare del Nord.
Al-Kasim si rese conto allora che il suo Paese di elezione aveva davanti una sfida ancora più impegnativa: non lasciarsi rovinare dal fiume di denaro che sarebbe arrivato di lì a poco. La sua missione diventò quella di non far ripetere alla Norvegia gli errori dell’Iraq, in cui lo Stato aveva di fatto perso il controllo delle risorse naturali a vantaggio delle multinazionali straniere.
Faruk al-Kasim riuscì nel suo intento. È diventato famoso, infatti, soprattutto per aver immaginato il modello di gestione del petrolio norvegese, un mix di controllo indipendente, azione delle compagnie petrolifere e partecipazione di una grande società statale, Statoil. Al-Kasim ideò il piano in una settimana di ritiro insieme a un collega, in una casa immersa nella natura: l’incarico gli era stato affidato dal Ministero dell’Industria, di cui il geologo era passato a essere consulente.
Nel nuovo Direttorato per il Petrolio, fondato nel 1972 come ente di controllo autonomo sull’operato sia di Statoil che delle compagnie petrolifere, al-Kasim ricevette un importante ruolo dirigenziale, che lasciò solo ai primi anni Novanta.
"Vi salverò dal petrolio"
Il modello norvegese si è rivelato di grandissimo successo. Riesce a bilanciare la presenza di investimenti nei pozzi, divisi a metà tra Statoil e le varie compagnie straniere, con attenzione all’impatto ambientale e all’innovazione tecnologica. Le percentuali di sfruttamento dei pozzi norvegesi sono vicine al 45, mentre nel resto del mondo sono quasi venti punti in meno.
Circa il 30 per cento delle entrate statali norvegesi viene dal petrolio, nonostante il Paese rimanga un esempio di buona gestione e di democrazia funzionante. Il merito, secondo molti, è anche dell’impegno e delle idee di Faruk al-Kasim, che nel 2012 ha ricevuto un’onorificenza dal re: l’articolo che probabilmente ha contribuito di più a farlo conoscere al mondo, pubblicato nel 2009 sul Financial Times, lo ha chiamato "l’iracheno che ha salvato la Norvegia dal petrolio".
Al-Kasim non è riuscito a fare lo stesso per il Paese d’origine, per lo meno non ancora. Dopo la caduta di Saddam Hussein, ha lavorato a una bozza di legge per riorganizzare la gestione delle risorse petrolifere in Iraq, ma la proposta non è passata.
Nell’aprile 2017, però, il ministro per il Petrolio iracheno Jabbar al-Luiebi ha annunciato una revisione generale dei contratti con le multinazionali del settore. Per l’occasione è stato contattato lui, l’ormai 83enne Faruk al-Kasim. Chissà che stavolta non riesca a portare anche nella sua terra la fortunata alchimia che ha reso ricca la Norvegia.
L'estrazione amica dell'ambiente
Di Giandomenico Serrao
Eni è presente in Norvegia dal 1965, inizialmente con Norsk Agip (oggi con Eni Norge), attiva dal 1971 con il giacimento Ekofisk. Nel Paese la società ha interessi in licenze esplorative e giacimenti in produzione, tra i quali Ekofisk, Åsgard, Heidrun e Kristin.
Nel 2000 ha scoperto il giacimento Goliat di cui è operatore (conduce le attività). La società è stata tra i primi operatori a condurre esplorazioni nel Mare del Nord, nel Mare norvegese e in quello di Barents. Ultimamente Eni Norge ha puntato sulle attività nel Mare di Barents che considera un'opportunità di sviluppo di lungo termine per l'industria dell'Oil&gas norvegese.
La società ha puntato su un approccio sostenibile durante i suoi oltre 20 anni di esplorazione nel Mare di Barents, focalizzandosi sulla protezione ambientale e sullo sviluppo locale. Eni Norge nel 2016 ha registrato una produzione equity di idrocarburi approssimativamente di 48,7 milioni di barili di olio equivalente.
Il gigante Goliat
Nel marzo 2016 è stata avviata la produzione del giacimento di Goliat (Eni 65%, operatore). La produzione ha raggiunto il target di 100 mila boe/giorno (65 mila boe/giorno in quota Eni) e, nel corso del 2016, il picco produttivo di circa 114 mila boe/ giorno (circa 74 mila boe/giorno in quota Eni). Secondo le stime il giacimento contiene riserve pari a circa 180 milioni di barili di olio.
La produzione avviene attraverso un sistema sottomarino composto da 22 pozzi allacciati al piu grande e sofisticato impianto di produzione e stoccaggio cilindrico del mondo (FPSO) attraverso un sistema di condotte sottomarine per la produzione e per l’iniezione.
L’utilizzo delle piu avanzate tecnologie, l’alimentazione elettrica della piattaforma dalla terraferma, la re-iniezione in giacimento di acqua e gas e nessun flaring di gas in normale produzione consentono di minimizzare l’impatto ambientale.
La differenza tra un italiano e un norvegese
La Norvegia ha un debito pubblico procapite di poco superiore ai 20 mila dollari, l’Italia sopra i 40 mila. Gli unici Paesi a superare il limite dei 40 mila dollari sono, oltre al nostro, gli Stati Uniti, il Canada, Belgio, Singapore, Irlanda e Giappone, con il debito in assoluto più alto, oltre 85 mila dollari per abitante.
La situazione dei Paesi con debito per cittadino più elevato è rappresentata in questa mappa, dalla quale vediamo che molti Stati europei hanno in effetti un debito piuttosto sostanzioso a carico dei propri cittadini ma che il nostro è, assieme a Irlanda e Belgio, quello che se la passa peggio in Europa.
In Europa ci sono solo due Paesi che hanno un fondo sovrano: la Norvegia e l’Irlanda. La seconda ha un fondo legato a una serie di servizi del valore di circa 8 milioni e mezzo di euro. Gli irlandesi sono 4 milioni e 600 mila. Ciò significa che ogni cittadino irlandese gode di un credito nei confronti dello Stato di meno di due euro. Certo meglio dei 40mila euro di debito che gravano su ogni italiano. Ma nulla in confronto a quello che riesce a fare la Norvegia.
Il Fondo sovrano norvegese bilancia molto bene il debito pubblico sulle spalle di ciascun cittadino. Anzi lo rovescia, riportando di fatto l’equazione a un segno molto positivo. Considerando che il valore del fondo è di oltre 954 miliardi di dollari, e che i norvegesi sono solo 5 milioni e 200 mila abitanti, il credito con cui ciascun cittadino viene al mondo è di 183mila euro a cui vanno sottratti i 20mila dollari di debito, circa 16mila euro. Sostanzialmente, euro più o meno, un norvegese, unico in Europa e al mondo, nasce con 167mila euro di credito in tasca. Un credito che, unito alla forte propensione all’innovazione, è un ottimo regalo alle prossime generazioni.
Dalle piattaforme d’oro nero alla Silicon Valley
Dove finiscono le enormi risorse del fondo sovrano norvegese? Il Norges Bank Investment Management (Nbim) investe il 65,1% del capitale in azioni e una parte consistente di questi soldi finiscono negli Stati Uniti. Più precisamente nelle grandi aziende della Silicon Valley: non c’è nome noto del tech in cui il fondo non abbia un robusto investimento.
Negli Stati Uniti sono stati investiti nel 2016 ben 205,5 miliardi di dollari. È la fetta più consistente in quanto ad azioni. Dietro gli Usa, ma distanti, il Regno Unito (55,4 miliardi), il Giappone (50,15 miliardi). Quarta, poi, la Germania (31 miliardi).
Guardando in particolare alla Silicon Valley, il Nbim investe parecchio nelle prime cinque società che qui hanno la loro sede principale. La classifica è data dall’indice SV150, che ordina le società in base alle entrate a livello globale (“volume delle vendite”) ottenute negli ultimi quattro quadrimestri.
Le azioni nei colossi del digital
Al primo posto troviamo la Apple (218,118 miliardi di dollari di volume): qui il Nbim ha investito, al 2016, 5,2 miliardi di dollari. Al secondo posto c’è la Alphabet, holding a cui fa capo Google Inc., con 90,272 miliardi di dollari di volume. Il Nbim ha investito nella società 4,2 miliardi.
Terza la Intel, con 59,387 miliardi di dollari di volume. Il Nbim ha investito 1,6 miliardi di dollari nel suo capitale azionario. Si posiziona quarta la Hewlett Packard Enterprise, con 48,806 miliardi di dollari di entrate a livello globale. E in questo caso, il fondo sovrano norvegese ha investito nella società 343 milioni di dollari. Quinta la HP Inc (l’altra branca della Hewlett Packard, che si occupa di pc e stampanti), con 48,676 miliardi di dollari di volume delle vendite. Il Nbim ha nella società 212 milioni di dollari.
Si possono poi citare altri esempi famosi. Facebook, che arriva nona nell’indice SV150 con 27,638 miliardi di dollari di vendite, vede un investimento di quasi 1,9 miliardi di dollari del Nbim. O ancora Netflix, tredicesima nell’indice SV150 con 8,831 miliardi di dollari di volume di vendite, le cui azioni sono state acquistate dal Nbim per un valore, al 2016, pari a 323 milioni di dollari.
Non compare poi nell’indice SV150, in quanto la sua sede centrale è a Seattle, nello stato di Washington, Amazon, il colosso delle vendite online. L’investimento del Nbim in questa società ammonta al 2016 a 2,5 miliardi di dollari. Anche la Microsoft ha sede nello stato di Washington, e dunque non compare nel SV150. Il Nbim ha investito oltre 4 miliardi di dollari nella società fondata da Bill Gates.
Accanto alla new economy, il Nbim investe molto anche nei settori più tradizionali. Dal petrolio (ad esempio detiene azioni della Exxon Mobil per un valore superiore a 3 miliardi di dollari) al bancario (il Nbim ha 2,1 miliardi di dollari investiti nella Bank of America) spaziando in molti altri settori, dalle automobili alle industrie farmaceutiche, dalla chimica all’intrattenimento.
Lo shopping italiano
Il Fondo sovrano della Norvegia ha avviato il suo shopping in Italia nel 1998, con un impegno crescente e costante, che ha toccato il picco nel 2015.
Alla fine del 2016, gli investimenti italiani di Oslo ammontavano a 13,8 miliardi di dollari complessivi ripartiti fra azionari e obbligazionari a reddito fisso, che assommavano rispettivamente a un importo equivalente a 8,123 e a 5,683 miliardi di dollari.
Gli investimenti in equity sono 117 alla data del 31 dicembre 2016 e attraversano praticamente tutti i principali comparti del listino. Nell'energetico il Fondo ha investito, tra l'altro, oltre un miliardo di dollari in Eni detenendo una quota dell'1,72%; 564,9 milioni in Enel con una quota dell'1,26%; 956 milioni in Saipem con l'1,68%; 197,2 milioni in Snam con l'1,36%. Il Fondo è presente con quote del 2,23% in Erg e dell'1,66% nella Saras.
Una partecipazione dell'1,12% è in Ansaldo STS, dell'1,53% in Leonardo Finmeccanica, dello 0,96% in Fca. Il Fondo ha una presenza variegata anche nel comparto bancario, con partecipazioni consistenti nel Banco Popolare (3,61%), nella Banca Popolare di Milano (3,52%), nella Banca Popolare di Sondrio (2,44%), in Intesa Sanpaolo (2,31%) e Unicredit (1,53%).
Quote norvegesi si rilevano nell'editoria e nelle comunicazioni, dall'1,6% di Arnoldo Mondadori all'1,32% di Mediaset allo 0,91% del Gruppo Editoriale L'Espresso.