C’è un pezzo d’Italia che muore portandosi dietro la sua identità. È quella parte dello stivale fatta di piccoli borghi, spesso arroccati in montagna, dove i bambini non nascono, i servizi diminuiscono e, senza lavoro, non si può far altro che andare via. Questi piccoli centri tornano di solito in vita ad agosto quando l’arrivo dei villeggianti e degli oriundi anima le case lasciate d’inverno alla polvere.
Ma il traffico estivo è soltanto una breve parentesi. Come risulta evidente nel resto dell’anno, la maggior parte dei paesini italiani, in particolare il 72,9% su 5.500, è in contrazione demografica. E in cinque anni, dal 2012 al 2017, questi borghi sono stati lasciati da circa 300 mila abitanti, una popolazione pari, ad esempio, all’intera città di Catania. A dirlo è l’Anci, l’Associazione nazionale comuni italiani, che con il suo atlante monitora lo stato demografico dei piccoli paesi sulla base dei dati Istat.
L’associazione, preoccupata per questa tendenza allo spopolamento, ha pubblicato di recente un manifesto per favorire il controesodo con alcune richieste allo stato tra cui l’aumento della semplificazione burocratica e un regime fiscale maggiormente vantaggioso, degli interventi che si andrebbero ad aggiungere ai 400 milioni già stanziati nella scorsa legge di bilancio. Anche se molti sindaci in modo autonomo da tempo sono in campo per incentivare il ritorno dei residenti nei modi più originali, come la vendita delle case chiuse e abbandonate al prezzo simbolico di un euro. Grazie a questi incentivi e ad altri fattori, quali ad esempio l’allargamento della banda larga, lo smartworking e l’aumento dei lavori digitali, tornare alle radici potrebbe non essere più così difficile.
Quanto si stanno spopolando i piccoli comuni
Nei comuni al di sotto dei 5000 abitanti vivono circa dieci milioni di italiani, il 17% dell’intera popolazione. Quelli con il numero maggiore di residenti sono i comuni della fascia media tra i 1000-3000 abitanti. Gli stessi, però, che hanno registrato negli ultimi cinque anni il calo demografico più evidente (-4%), seguiti dai centri tra i 3000-5000 abitanti (-2,4%) e infine dai più piccoli al di sotto dei 1000, sorprendentemente più stabili (-0,7%). La media generale del 3%, come si è già detto, corrisponde a 300 mila residenti in meno dovuti sia ai trasferimenti non bilanciati a sufficienza dai nuovi arrivi, che dal rapporto negativo tra le nascite e le morti.
Le conseguenze dell’esodo per chi resta possono essere pesanti: le scuole chiudono, gli uffici postali aprono solo pochi giorni a settimana, gli ospedali diventano sempre più lontani, e peggio ancora s’innesca un processo a catena difficile da arrestare, per cui la carenza dei servizi diventa una ragione in più per andare via. In questo modo alcuni comuni sono diventati ormai quasi dei borghi fantasma. Dal 2011 al 2017, i cali demografici più evidenti hanno interessato proprio alcuni paesini di poche decine di abitanti come Moncenisio nella Val Cenischia, vicina alla Val di Susa (-31%), Noasca sempre nel torinese (-29%), Fascia nel genovese (-28%) e Rhemes Notre Dome in Valle d’aosta (-28%).
È possibile conoscere la variazione demografica di tutti gli altri piccoli comuni italiani sempre nel periodo 2011 - 2017, digitandone il nome nella tabella sottostante. Le percentuali sono state calcolate su dati Istat, sommando i cittadini che se ne sono andati di anno in anno (al netto di quelli arrivati) e mettendoli in relazione alla popolazione del 2011.
Dove si trovano i comuni in esodo
I comuni che l’Anci chiama in “esodo” perché la loro crescita demografica è inferiore a zero sono in tutto 4007. Si concentrano nelle zone interne, in particolare in montagna (41%) dove i collegamenti sono difficili e le condizioni meteo non sempre favorevoli. Ma sono molto diffusi anche a bassa quota nella collina interna (35%), in questo caso specialmente nel Mezzogiorno. Una quota consistente è però presente perfino in pianura (16%). Se ne contano di meno, invece, lungo le coste, sia in collina (7%) che in montagna (1,7%).
Lo spopolamento di questi paesi non porta al declino semplicemente delle comunità sia pure con il loro enorme bagaglio di costumi e tradizioni antiche, ma del territorio nel suo insieme. I terreni abbandonati, infatti, stanno trasformando il paesaggio, aumentando il rischio idrogeologico.
Contrariamente al luogo comune, non ci sono sui paesini in esodo grandi differenze tra il nord e il sud Italia. É un problema del tutto trasversale. Anzi, le prime due regioni per numero di piccoli comuni in via di spopolamento sono il Piemonte (762) e la Lombardia (600) che lasciano indietro a notevole distanza la Campania (276), la Sardegna (262), la Calabria (253) e così via. In Piemonte, in particolare, si tratta per lo più di borghi sotto i 1000 abitanti (428), un dato in controtendenza con quello nazionale che vede in contrazione demografica soprattutto i comuni di fascia media. A riprova dell’assenza di una netta linea di demarcazione tra nord e sud, agli ultimi posti in classifica ci sono la Puglia (70), la Toscana (89), le province autonome di Trento e Bolzano (89) e infine la Basilicata (92).
Un controesodo è possibile
I cittadini italiani non stanno scappando da tutti i piccoli comuni. Alcuni paesini riescono in qualche modo a resistere. Sono quelli rimasti in questi sei anni “stazionari” (9,6%) e soprattutto i comuni del “controesodo” (17,5%), usando una definizione dell’Anci, che hanno registrato un aumento dei residenti maggiore della media nazionale ferma all’1,77%. D’altronde, nei paesini ci si sente più sicuri, si respira un senso di comunità, si è a contatto con la natura e la vita è meno stressante. In tutti i casi, poi, gioca un ruolo la “scelta di cuore”, o meglio il desiderio di non tagliare i ponti con la propria famiglia.
Ma se è un motivo comune a tutti i piccoli centri, a caratterizzare in particolare i comuni del controesodo sembrerebbe un’altra ragione, ovvero la loro posizione. La maggior parte di queste municipalità si trova, infatti, in collina litoranea o in pianura, comunque fuori dalle cosiddette zone interne.
Con l’ultima legge di bilancio è stato stanziato un fondo dell’importo di 400 milioni per la messa in sicurezza di collegamenti stradali, edifici pubblici e culturali, in generale per tutti gli investimenti strutturali nei piccoli comuni. Un intervento riconosciuto, ma non ritenuto sufficiente dall’Anci che lo scorso luglio ha lanciato la sua agenda per il controesodo avanzando diverse richieste, tra cui la stabilizzazione di questi finanziamenti nel tempo e altri vantaggi di natura fiscale.
Molti sindaci, però, hanno deciso di non aspettare l’aiuto dello Stato, lanciandosi nella sfida al controesodo con iniziative singolari. La più conosciuta è la vendita simbolica delle case dei centri storici abbandonate dai loro proprietari al costo di un solo euro. L’idea lanciata per la prima volta da Vittorio Sgarbi nel 2010 a Salemi è stata copiata poi da altri primi cittadini. E ha fatto il giro del mondo grazie a un video della Cnn che parlava di questa incredibile opportunità, facendo riferimento specificamente al caso del borgo siciliano di Sambuca.
Dopo l’episodio, si sono moltiplicati comuni che hanno adottato lo stesso stratagemma e per il successo dell’iniziativa la rete televisiva Discovery Channel ha addirittura in programma di realizzare una serie ambientata in alcune di queste case. A seconda dei Comuni che hanno lanciato iniziative di questo tipo, per la compravendita sono necessari alcuni requisiti: presentare un piano di ristrutturazione dell’immobile (spesso è richiesto di coinvolgere maestranze locali per fare impulso all’economia del posto) del valore di almeno 15-20mila euro, farsi carico di tutte le spese notarili e di registrazione e far partire i lavori entro un periodo limitato, da qualche mese a massimo tre anni dal momento in cui si ricevono tutti i permessi.
Per alcuni comuni questa iniziativa sta avendo molto successo: sia in Sicilia che in Sardegna alcuni paesini hanno visto arrivare moltissime proposte di acquisto. L’unico neo? Si tratta nella gran parte di acquirenti stranieri, che quindi potrebbero avere interesse a utilizzare queste case come luogo di vacanza occasionale o come struttura turistica, non come abitazione. Non necessariamente, dunque, le vendite rappresenteranno una possibilità di ripopolamento del posto, con l’insediamento di nuovi abitanti. Ma anche così, per i piccoli comuni potrebbe essere un’occasione unica di monetizzazione, rivalutazione e messa in sicurezza del patrimonio edilizio.