Ogni anno finiscono nell'oceano circa 8 milioni di tonnellate di plastica (valori decuplicati dal 1980) e tra le 300 e le 400 milioni di tonnellate di metalli pesanti, solventi, fanghi tossici e altri rifiuti provenienti da impianti industriali. Ma oltre all'inquinamento, anche il cambiamento climatico rappresenta una minaccia concreta nei confronti della biodiversità marina: potrebbe determinare un calo della presenza di pesci che va dal 3% al 25% entro la fine del secolo, a seconda di quanto saranno efficaci le azioni contro l'aumento delle temperature. Una conseguenza che avrebbe ripercussioni dirette su oltre 3 miliardi di persone per cui il pesce rappresenta la principale fonte di proteine e per oltre 200 milioni di lavoratori impiegati nell'attività della pesca.
L'acqua piovana, l'acqua potabile, il clima, l’ambiente costiero, gran parte del cibo e metà della quantità di ossigeno che respiriamo sono regolati dagli oceani. Oggi il loro equilibrio è in pericolo a causa dei cambiamenti climatici, della pesca eccessiva e dell'inquinamento, soprattutto quello provocato dalla plastica. Gli oceani si stanno riscaldando più velocemente del previsto, il loro livello si sta alzando a causa dello scioglimento dei ghiacciai, l’anidride carbonica sta rendendo l’acqua più acida, con conseguenti danni alle barriere coralline, e molte specie marine sono a rischio estinzione.
Il “cuore della Terra” (così l’ONU definisce gli oceani) è fondamentale per la sopravvivenza dell’essere umano e di tutte le specie che vivono sul pianeta, e per questo deve essere protetto e salvaguardato. Per aumentare la consapevolezza dei benefici che l'umanità trae dagli oceani e stimolare i singoli individui e le collettività a utilizzare le sue risorse in modo sostenibile, l’8 giugno di ogni anno dal 2009 le Nazioni Unite celebrano la Giornata Mondiale degli Oceani (World Oceans Day). L’edizione 2019, "il genere e l'oceano", vuole inoltre porre l’attenzione sul ruolo delle donne nel rapporto con l'oceano, tema su cui ci sono ancora pochissimi dati e ricerche.
Arrestare e invertire il deterioramento della salute e della produttività degli oceani è uno degli Obiettivo di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030, il programma d’azione sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU.
Oceani più caldi e acidi
Nell'ultimo secolo l’utilizzo di combustibili fossili come il carbone e il petrolio ha aumentato la concentrazione di anidride carbonica (CO₂) in atmosfera, provocando l’intensificazione dell’effetto serra, ossia la capacità dell'atmosfera di intrappolare il calore irradiato dalla Terra verso lo spazio e di riscaldarsi. Circa il 93% del calore in eccesso creato dalle attività umane viene assorbito dagli oceani che stanno registrando un aumento delle temperature medie.
Secondo Copernicus, il programma europeo di osservazione della Terra, negli ultimi 25 anni questo fenomeno ha avuto una notevole accelerazione. Secondo l’ultimo documento sullo stato degli oceani, Ocean State Report, la temperatura della superficie del mare a livello globale è aumentata tra 1993 e 2015 con un tasso di 0,016 °C all'anno. Si sono registrati aumenti praticamente in tutte le regioni oceaniche: + 0,04 °C nel Mediterraneo, + 0,08 °C nel Mar Nero, +0,03 °C nel Mar Baltico.
Le temperature in aumento sono in grado di alterare le correnti e modificano il ciclo aria-mare con ripercussioni sul meteo e sulla frequenza di eventi estremi come alluvioni, mareggiate, uragani e tempeste. L’aumento di un grado o anche di mezzo grado della temperatura degli oceani potrebbe provocare anche effetti devastanti sulla biodiversità oceanica. Alcune specie, per salvarsi, potrebbero migrare verso nuovi territori, altre - quelle che non possono muoversi, come i coralli - semplicemente morirebbero con gravi conseguenze su tutto l’ecosistema.
Il riscaldamento degli oceani tra 1940 e 2016 è anche ben evidenziato da un’animazione del sito inglese Carbon Brief, specializzato nel monitoraggio e nello studio del cambiamento climatico:
A causa del riscaldamento e dello scioglimento dei ghiacciai, il livello degli oceani sale. Dal 1993, ogni dieci anni, sono stati persi quasi 780 000 km² (6,2%) di ghiacciai nell’Artico che hanno provocato ogni anno un innalzamento del livello degli oceani di 3,3 mm (nel Mar Mediterraneo di 2,7 millimetri). Dal 1900 il livello medio del mare a livello globale è aumentato dai 16 ai 21 cm.
Gli oceani svolgono l’importante compito di attenuare gli impatti dell’inquinamento atmosferico perché assorbono circa il 30% della CO₂ prodotta dalle attività umane. Ma il prezzo che paghiamo per questo immagazzinamento di anidride carbonica è l'acidificazione delle acque. Quando la CO₂ viene assorbita si scatenano una serie di reazioni chimiche che modificano il pH degli oceani. Negli ultimi 200 anni, la basicità dell’acqua è scesa di 0,1 unità, passando da 8,2 a meno di 8,1 di pH e determinando un aumento di acidità del 30%. Se le emissioni di gas serra dovessero continuare ai livelli attuali, nel prossimo secolo gli oceani diventeranno il 150% più acidi, raggiungendo un livello di pH mai avuto negli ultimi 20 milioni di anni.
Habitat e specie marine a rischio
A causa dell’acidificazione, gli oceani stanno perdendo anche elementi chimici importanti per la formazione e la sopravvivenza di animali come i molluschi, i ricci di mare, il plancton e i coralli. Le barriere coralline occupano circa l’1% dell’ambiente marino ma sono fondamentali per un ecosistema sano e per tutte le altre forme di vita perché, letteralmente, ne costruiscono l'habitat. Nelle loro strutture ospitano un terzo delle specie marine del mondo.
Solo un mese fa, la Piattaforma Intergovernativa scientifico-politica per la biodiversità e gli ecosistemi (IPBES) dell’Onu ha lanciato l’allarme: il tasso di estinzione delle specie sta aumentato a ritmi molto veloci e oggi sono a rischio circa 1 milione tra vertebrati terrestri e marini, insetti, invertebrati e piante. Il report, realizzato da 145 autori esperti provenienti da 50 paesi, è il più esaustivo mai realizzato sulle minacce alla biodiversità.
Fino ad oggi, e nel giro di breve tempo, circa il 66% dell'ambiente marino è stato significativamente alterato dalle azioni umane. I fertilizzanti che entrano negli ecosistemi costieri hanno prodotto più di 400 "zone morte" oceaniche, per un totale di oltre 245.000 km² (una superficie superiore al Regno Unito). Dal 1870 più della metà della superficie coperta da coralli è stata persa: solo tra il 2016 e il 2017 circa il 50% dei coralli della Grande Barriera Corallina australiana hanno subito il fenomeno del bleaching, lo sbiancamento provocato dall’acidificazione degli oceani che porta i coralli verso la morte.
Il 33% delle barriere coralline ancora vive è a rischio di estinzione, come un terzo dei pesci cartilaginei (squali e razze) e dei mammiferi marini (balenottere azzurre, foche monache, eccetera). Anche la pesca ha un notevole impatto sulla biodiversità oceanica. Quella industriale, ad esempio, si pratica ormai in più della metà della superficie marina ma esiste anche quella illegale o non ancora regolamentata. È stato calcolato che ogni anno circa 100 milioni di squali vengono catturati e uccisi illegalmente per preparare la zuppa di pinne, un piatto tipico della cucina asiatica. Delle 62 specie di squali che vivono in mare aperto (pelagici), il 32% è classificato come minacciato, il 6% in pericolo, il 26% vulnerabile.
Le aree marine protette e le aree marine naturali incontaminate
Secondo il rapporto IPBES, sulla base delle tendenze attuali, gli obiettivi globali per la conservazione e l'uso sostenibile della natura (Aichi Biodiversity Targets) non potranno essere raggiunti entro il 2020. Oggi solo il 7% (27 milioni di km²) di superficie oceanica è stato designato come area marina protetta (AMP). Le aree marine protette sono luoghi nei quali si punta a ripristinare o mantenere l'equilibrio a lungo termine della natura. Nonostante siano aumentate soprattutto negli ultimi anni, difficilmente si riuscirà ad arrivare al 10% entro il 2020.
Oggi solo un ottavo di tutta la superficie oceanica non è stata colpita dagli impatti delle attività umane e del cambiamento climatico. Si tratta aree marine naturali incontaminate, dove resiste un habitat favorevole alla conservazione della biodiversità.
Uno studio pubblicato su Current Biology ha dimostrato che le superfici più estese si trovano lontano dalla presenza dell'uomo: in mare aperto e nell'emisfero meridionale. E solo il 5% di queste sono state dichiarate aree protette, principalmente quelle che si trovano in acque nazionali.
Queste aree sono più resistenti agli effetti del cambiamento climatico e possono mostrarci come era l’oceano prima dell'intervento umano. Secondo gli scienziati che hanno condotto lo studio, le strategie globali di conservazione della biodiversità promosse dalle Nazioni Unite in futuro non dovranno occuparsi solo di ripristinare l’integrità di aree già compromesse dall’azione umana, ma dovranno impegnarsi a promuovere azioni di protezione verso le aree naturali incontaminate a largo delle acque internazionali.
La loro protezione contribuirà a preservare i grandi ecosistemi marini, le specie che migrano e quelle che vivono in territori circoscritti. I benefici saranno diretti anche per l’umanità che preserverà importanti fattori di mitigazione degli effetti delle emissioni di CO₂ rilasciate in atmosfera.