"Spero che voi, i nostri nipoti, guardando indietro negli anni a venire possiate dire che noi, in questa generazione, abbiamo avuto la determinazione per prendere le misure necessarie a preservare il nostro unico e bellissimo pianeta".
Dalla Sala concerti di Stoccolma, durante il suo discorso alla cerimonia del Premio Nobel lo scorso 10 dicembre, William D. Nordhaus sembra inviare un messaggio ai negoziatori dei quasi 200 paesi che in Polonia stanno prendendo parte alla Cop24. Un messaggio che pure sembra non essere arrivato.
L’annuncio dei vincitori del Nobel per l’Economia, William D. Nordhaus e Paul M. Romer, è stato dato lo scorso ottobre poche ore dopo l’allarme lanciato dall’ultimo rapporto dell’IPCC, il principale organismo internazionale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che sottolinea la necessità di contenere il riscaldamento globale sotto la soglia di 1,5 °C. L’Accademia Reale Svedese delle Scienze ha premiato i due economisti americani per i loro studi sull’economia e i cambiamenti climatici e, in particolare, perché con le loro ricerche “hanno sviluppato metodi che affrontano alcune delle sfide fondamentali e più urgenti del nostro tempo. Combinare la crescita sostenibile a lungo termine dell'economia globale con il benessere della popolazione del pianeta”.
L’interrelazione tra i cambiamenti climatici e l’economia
William D. Nordhaus ha aperto la strada a quel filone di studi che spiega come l'economia e il clima siano reciprocamente dipendenti l'uno dall’altro. Nato nel 1941 a Albuquerque, nel Nuovo Messico, è attualmente professore alla Yale University, una delle più prestigiose negli Stati Uniti. Le sue ricerche sono iniziate negli anni Settanta, dopo la fine del dottorato al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Cambridge, negli stessi anni in cui gli scienziati hanno iniziato a lanciare i primi allarmi sulla correlazione tra uso di combustibili fossili e aumento globale delle temperature.
Nordhaus ha dimostrato che il clima globale - e in generale la natura - non è soltanto un elemento determinante delle attività umane, ma influenza la società e risente della sua attività economica. A metà degli anni Novanta fu il primo studioso a creare un modello integrato che descriveva proprio questa interazione tra economia e clima. I suoi modelli, gli Integrated Assessment Models (IAM), mettono insieme conoscenze da diverse discipline (scientifiche ed economiche) e consentono di valutare diversi percorsi di crescita economica e le loro implicazioni sul clima e, di conseguenza, sul benessere delle generazioni future. La prima generazione di questi è il modello Dynamic Integrated Climate Economy (DICE).
Valutare le politiche contro il riscaldamento globale
Per Nordhaus l'economia di mercato, pur essendo un potente motore di sviluppo umano, ha importanti limiti. Produce esternalità negative, le emissioni di gas serra che lui considera uno dei grandi fallimenti dell’economia di mercato. I suoi modelli dinamici seguono la logica secondo cui la produzione di beni richiede il consumo di energia, che è prodotta dalla combustione di combustibili fossili (carbone, gas, petrolio). Più emissioni di CO2 aumentano la concentrazione di carbonio nell'atmosfera che accresce il riscaldamento globale e, alla fine, produce danni economici.
Per analizzare come l'economia influenza il clima, il clima influenza l'economia e come le diverse politiche producono risultati positivi per l’uno e per l’altra, Nordhaus ha integrato il modello economico di crescita con la conoscenza delle scienze naturali (fisica e chimica). I suoi modelli analizzano i cambiamenti climatici in termini di costi e benefici. Gli IAM sono ancora oggi utilizzati dal Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC) per valutare l’andamento dell’economia e del clima, ma sono anche un importante strumento per analizzare le conseguenze di politiche climatiche come la “carbon tax”.
Tassare la CO2
Per Nordhaus il fallimento del mercato è avvenuto perché le emissioni di CO2, sottoprodotto dell’economia di mercato, non hanno un prezzo e di conseguenza sono escluse dal prezzo finale dei prodotti. Sono dunque sottostimate. Per spingere il mercato, le imprese e i consumatori ad adottare soluzioni a basso impatto di CO2 Nordhaus propone la “carbon tax”. Una delle possibili declinazioni della carbon tax è la tassa sui carburanti voluta da Emmanuel Macron in Francia. Una proposta di tassazione che però, per come è stata formulata, ha scatenato le ormai celebri proteste dei gilet gialli di cui si è discusso molto nelle scorse settimane. Proteste che hanno portato il presidente Macron a rimandare di un anno le misure previste e che, probabilmente, hanno anche reso più difficile applicare concretamente e su larga scala un’iniziativa analoga.
Secondo Nordhaus, in ogni modo, un sistema globale di tasse sul carbonio, imposte uniformemente a tutti i paesi, porterebbe a ridurre nel tempo le emissioni. L’idea si basa sulla proposta che negli anni Venti fece l’economista britannico Arthur Cecil Pigou: ogni produttore deve pagare il costo sociale del danno causato dalle emissioni di carbonio necessarie a creare beni. Nordhaus riprende questo principio e lo applica alla sua teoria per la prima volta nel 1977.
Il report State and Trends of Carbon Pricing del 2018 calcola che, se attuate, queste iniziative coprirebbero circa il 20% delle emissioni globali di CO2. La tendenza è in aumento (nel 2017 era 15%) e si avvicina all’obiettivo della Carbon Pricing Leadership Coalition (CPLC), una iniziativa lanciata a Parigi nel 2015, durante la COP21, che riunisce governi nazionali e regionali, aziende e organizzazioni della società civile che vogliono applicare un prezzo al carbonio a livello globale. La coalizione puntava a raggiungere il 25% entro il 2020.
(immagine tratta dal rapporto State and Trends of Carbon Pricing)
Il club del clima e gli approfittatori
Nonostante questi sforzi, per Nordhaus il prezzo del carbonio oggi è praticamente uguale a zero. Durante la sua lecture all’università di Stoccolma, il professore di Yale ha spiegato che le attuali politiche climatiche non stanno funzionando a causa di quegli stati che lui definisce i “paesi scrocconi” (free rider). Si tratta di quei paesi che ricevono i benefici del progresso tecnologico ma non ne vogliono pagare i costi. Il ragionamento alla base è semplice. Una nuova tecnologia, ovunque sia stata ideata, può in linea di principio essere utilizzata in qualsiasi altro luogo per la produzione di nuovi beni.
Allo stesso modo, le emissioni di diossido di carbonio, ovunque siano originate, si diffondono rapidamente nell'intera atmosfera. Circa la metà di queste rimarrà lì centinaia di anni, mentre un’altra grande parte molto più a lungo, contribuendo al riscaldamento globale. Per questo l’azione per la riduzione delle emissioni climalteranti deve essere globale. La soluzione ideata da Nordhaus è il club del clima (climate club), un tipo di associazione sovranazionale che cambi il principio base degli accordi internazionali, la partecipazione volontaria. Nordhaus propone un tasso fisso da pagare per le emissioni di CO2 (per esempio 50 $ a tonnellata di CO2) a chi entra nel club e sanzioni per chi rimane fuori: come per esempio tariffe speciali per importare beni nelle regioni del club.
Paul M. Romer e la crescita endogena
Il secondo vincitore del Nobel per l’economia 2018 è un altro statunitense, ovvero Paul M. Romer, classe 1955, attualmente Professore alla NYU Stern School of Business e già capo economista della Banca Mondiale. L’Accademia Reale delle Scienze di Svezia ha deciso di premiare l’economista americano per i suoi contributi sulla teoria della crescita endogena. Schematizzando, possiamo affermare che fino agli anni Novanta il modello dominante della crescita considerava l’innovazione come un fattore di crescita esterno (esogeno) al sistema economico.
Si riteneva cioè che l’innovazione fosse un miglioramento come calato dall’alto nel processo produttivo. Secondo Paul Romer e altri economisti, invece, l’innovazione tecnologica va intesa come un processo integrato nel sistema stesso e capace di generare crescita dall’interno: per questo motivo si parla di crescita endogena. Detto altrimenti: per aumentare la produttività e di conseguenza la crescita non occorre attendere il colpo di genio isolato di uno scienziato o di un consorzio esterno ai processi produttivi, ma occorre che il sistema incentivi il progresso con investimenti in ricerca, politiche mirate, urbanizzazione sostenibile, programmazione a medio e lungo termine e politiche coraggiose di ricerca.
Il progresso e le risorse
Durante la sua lecture in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel, Romer ha mostrato una foto scattata in Guinea. In questa foto un gruppo di ragazzi e ragazze sta studiando di sera all’aperto con i libri sulle ginocchia, illuminati dalla luce di alcuni lampioni in strada. Pensare che il buio possa essere un ostacolo per la nostra formazione è un pensiero che nemmeno ci sfiora. Eppure, in un paese come la Guinea è realtà.
Secondo la Banca Mondiale, nel 2016 solo il 33% della popolazione della Guinea aveva accesso all’elettricità. Pochissimi, ma nel 1990 la percentuale era al 6%. I numeri mostrano un’evidente crescita di accesso all’elettricità, con un inevitabile costo in termini di emissioni di diossido di carbonio.
A meno che l’elettricità non sia prodotta con fonti a impatto zero - ed è molto difficile questo accada in paesi con economie in cui l’innovazione è limitata da diversi fattori - l’accesso all’energia da parte di moltissime persone nei paesi in via di sviluppo migliorerà le loro condizioni di vita ma peggiorerà quelle di tutto il pianeta per via dell’aumento in atmosfera dei gas serra? In una domanda volutamente provocatoria, Romer si chiede: dovremmo forse auspicare che la crescita in quei paesi si fermi? Dovremmo forse “noi” sperare che “loro” rimangano al buio in nome di un benessere comune più importante? Per Romer la risposta è ovviamente no.
Il neo premio Nobel propone al contrario una visione economica e geopolitica estremamente concreta e pragmatica capace di coniugare inclusione, accesso all’energia e riduzione delle emissioni. Come? Attraverso il progresso e l’innovazione garantiti dalla conoscenza e dalle idee, ovvero beni economici non rivali e condivisibili.
Malthus, il PIL e le emissioni
Il progresso e la crescita, spiega Romer, sono incentivati dall’innovazione e ostacolati dalle risorse scarse. Più precisamente, nella sua lecture Romer cita tre freni al progresso: il primo sono proprio le esternalità negative di cui parla Nordhaus, fra cui rientrano ad esempio le emissioni di combustibili fossili, o le scorie pericolose da smaltire nel caso della fissione nucleare. Secondo freno è la comparsa in certi scenari della stagflazione, ovvero una mancanza di crescita economica (stagnazione) combinata a un aumento dei prezzi dei beni (inflazione). Terzo freno è quindi la dinamica malthusiana per cui le risorse sono limitate e crescono in modo aritmetico a fronte di un aumento geometrico della popolazione.
Ma qual è la situazione attuale e cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi decenni? L’OPEC, nel report World Oil Outlook 2018, riporta uno scenario secondo il quale da qui al 2040 la popolazione aumenterebbe di più di un miliardo e mezzo di persone. Al contempo, la crescita economica sarebbe trainata dai paesi emergenti. In questi paesi la crescita prevista si stima intorno al 4,5% annuo: un passo impossibile da tenere per gli altri. La Russia si fermerebbe al 2,3%, mentre il complesso dei paesi OCSE (tra cui USA, UE e Giappone) fa segnare una crescita dell’1,8% da qui al 2040.
Questa crescita del PIL mondiale si accompagna a emissioni di CO2 che l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) ha stimato compresi in una forbice di 35,9 e 42,5 giga tonnellate (fonte: World Energy Outlook). In entrambi i casi saremmo di fronte a un aumento rispetto al 2017, quando le emissioni sono state 32,6 Gt. L’IEA fornisce però anche uno scenario alternativo e incoraggiante sulle emissioni: seguendo politiche ambientali sostenibili e davvero coraggiose, le emissioni nel 2040 potranno anche scendere a 17,6 Gt - quindi quasi la metà del 2017. Questo calo si verificherebbe nonostante le traiettorie di crescita del PIL globale e della popolazione: è quindi possibile in linea teorica coniugare sostenibilità e crescita?
Sembrerebbe di sì, ma c’è bisogno di politiche coraggiose e innovazione tecnologica che consenta di affidarsi sempre meno ai combustibili fossili e sempre di più alle rinnovabili. Crescita e sostenibilità possono essere tenute insieme solo dall’innovazione. E questo tipo di innovazione si nutre di capitale umano, idee e conoscenza.
Le idee come motore del benessere
Secondo Romer limitare le emissioni di CO2 quindi non può essere una questione di mancato accesso alle risorse, ma deve essere una scelta di innovazione basata sulle idee e sulla conoscenza condivisa. Questo è possibile perché secondo Romer le idee sono beni “non rivali”. In che senso? Le idee non sono sedie, spiega l’economista: se abbiamo dieci sedie e undici persone, uno resterà in piedi: l’ultima sedia, quindi, è un bene rivale che va a una sola delle due persone rimaste. Ma le idee non sono così. Romer definisce un’idea come “un contenuto di conoscenza codificata”. Come tale, un’idea può essere copiata e condivisa. Nel caso delle idee più innovative e recenti, Romer non esclude il ricorso a brevetti o a sistemi di pagamento per accedervi.
Questo meccanismo serve per non depotenziare pilastri della nostra economia quali la competitività e la concorrenza. Anche se in parte protette, attraverso le idee si può innescare un processo virtuoso che è connaturato all’evoluzione umana sin dal Neolitico. Da una serie di scoperte siamo stati in grado di migliorare la nostra capacità di produrre cibo; più mangiamo più la popolazione sta bene e si mantiene numerosa, viva e in forze; più individui in queste condizioni equivalgono a nuove idee e le idee portano miglioramenti che danno più cibo e benessere, quindi più individui, e così via. Avremo, perciò, un circolo virtuoso che Romer definisce “combinatorial explosion”. In tal senso, l’economista punta sugli individui non come meri consumatori che con la loro presenza consumano le scarse risorse, ma come capitale umano in senso pieno capaci di generare idee e pertanto benessere.
L’accesso alla conoscenza
Romer sostiene che anche l’accesso alla conoscenza debba essere il più ampio possibile. Escludere, o comunque non facilitare l’accesso di tutti alla conoscenza è una strategia perdente. Per spiegare l’assurdità dell’esclusione, Romer fa l’esempio di una società duramente maschilista che limita l’accesso alla conoscenza alle donne. Questo scenario, oltre a risultare immorale, è stupido e controproducente, perché vuol dire rinunciare in partenza e senza motivo a metà della forza intellettuale della popolazione umana.
Romer insiste auspicando un’inclusione ampia delle persone nei processi di conoscenza: l’essere umano incentivato e motivato a produrre idee e conoscenza è strumento economico attivo e non mero predatore di risorse. Perciò, gli studenti della Guinea non saranno pericolosi consumatori di energia e inquinatori del pianeta, ma futuri innovatori che, proprio grazie alla luce che consentirà loro di studiare, in futuro potrebbero essere messi nella condizione di sviluppare tecnologie e innovazioni capaci di generare luce in modo sostenibile.
Idee, condivisione, inclusione: per Romer non c’è altra via per crescere non solo sul piano economico, ma anche come specie. Ed è qui che entra in gioco il suo legame con il collega Nordhaus nella premiazione di Stoccolma. La sfida più urgente per Homo sapiens è una crescita economica che garantisca benessere e sostenibilità: a partire quindi dai pilastri teorici esposti, Romer chiude il suo speech a Stoccolma parlando di global warming. Abbiamo i dati, sappiamo cosa dobbiamo fare per limitare il riscaldamento globale, sappiamo che possiamo riuscirci. I governi sono attesi alla decisione, devono fare scelte economiche e politiche determinanti per il futuro e il benessere della nostra specie. E possono farlo sapendo che proprio le persone, il capitale umano, sono il carburante di questa innovazione e non un pericoloso ostacolo.