AGI - Storico, saggista, giornalista, già docente di Storia dell’Europa contemporanea all’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti, autore di libri pubblicati da alcune tra le più importanti case editrici italiane ed europee (Mondadori, Utet, Laterza, Rusconi, Solferino, Lattès, Wydawnictwo Literackie, Bellona, Neriton, Università di Varsavia, Grada, Arte), vincitore nel 2010 con ‘Il volontario’ del Premio Acqui Storia, Marco Patricelli è da poco tornato in libreria con ‘L’ombra del Duce. La storia dimenticata di Edvige, la sorella di Mussolini’ (Solferino). Per sapere di più di questo suo lavoro l’AGI l’ha incontrato.
Come è nato il libro?
Al di la del fatto che pochi sanno che Mussolini avesse una sorella, il libro è frutto di una mia curiosità storica: volevo capire come il Duce si relazionasse a lei e quale fosse stato il suo ruolo nel ventennio. Nel loro rapporto ho individuato due aspetti
fondamentali, il primo dei quali è strettamente personale: pur essendo più piccola di Benito, dai quattordici anni in poi, in seguito alla morte della madre, Edvige di autonominò chioccia di questo ragazzo irrequieto e ingestibile fin dall’infanzia. Dopo aver vissuto l’esperienza di essere figlia di un socialista rivoluzionario, spesso nei guai la legge, e di una maestra dalla forte fede cattolica, la giovane seppe sintetizzare in sé la parte rossa paterna e la parte bianca, colta e clericale, materna, assumendo un ruolo da educatrice che fu espressione della borghesia rurale da cui proveniva. Il secondo aspetto del loro rapporto prende forma quando Mussolini ascende al potere, divenendo capo del governo e poi Duce: Edvige non ne diventa consigliera, ma si trasforma in un tramite tra il fratello e coloro che non avevano modo di rivolgergli la propria voce. A
lei Benito non sapeva dire no, circostanza che la rendeva unica. Basti pensare che quando Edvige e Rachele Mussolini litigarono, il Duce chiese alla moglie di non costringerlo a una scelta: avrebbe come sempre privilegiato la sorella.
Nel libro la vita di Edvige è raccontata in parallelo a quella della sorella di Hitler. Ho trovato questa simmetria molto interessante proprio per la sua discontinuità. Mentre Edvige poteva andare a Palazzo Venezia quando voleva senza che nessuno osasse fermarla, e aprire al cospetto del Duce la sua cartellina gialla piena di istanze, suppliche e richieste di raccomandazioni spesso provenienti anche da perseguitati dal regime - su tutti può essere ricordato il caso di De Gasperi, per cui Edvige intercedette facendosi portavoce anche del Vaticano - Paula Hitler venne letteralmente cancellata dal fratello, che la costrinse a cambiare cognome in Wolff e le distrusse nei fatti la vita intervenendo contro due suoi fidanzati, un ebreo ed un medico spedito sul fronte orientale. In sintesi: mentre Edvige era l’ombra del Duce, Paula Hitler sparì all’ombra del Führer, perdendo finanche la propria identità. Eppure nel dopoguerra entrambe difesero allo stesso modo la memoria dei fratelli: Edvige edulcorando i passaggi più oscuri della storia del fascismo con giustificazioni di superficie anche per le leggi
razziali, e Paula negando addirittura che Adolf fosse stato responsabile della Shoah.
Ora che è morto, disse di lui, chi può difenderlo se non io?
Edvige giustificò Benito anche nelle sue memorie, ma l’ultima parte della sua esistenza fu degna di personaggio da tragedia greca: dopo che il 28 aprile 1945 le furono uccisi il fratello, il figlio maschio prediletto e il genero, non uscì più di casa. Tutto il suo mondo scomparve in un solo giorno sotterrandola di colpo tra quattro mura.
Nell’ottica di una moderna rilettura del ventennio cosa rappresenta la vicenda della sorella del Duce?
Non può essere lente per un inquadramento storico, tuttavia il ventennio visto attraverso di lei non può dirsi osservato dal buco della serratura. Il filtro di Edvige è quello di un profondo affetto, che la porta a esaltare le opere del regime e smorzarne i crimini. Per lei Mussolini non ha mai voluto e non è dunque responsabile di alcuna violenza, mentre dal punto vista dell’etica personale nei rapporti con le tante donne avute il Duce si è semplicemente comportato da uomo, che se desiderato non si tira indietro. Il Concordato nato dalla firma dei Patti Lateranensi, infine, la mette in pace anche con la sua parte più cattolica.
Perché il tema del fascismo continua a essere così attuale in Italia?
Perché il fascismo è nell’autobiografia della nostra nazione. Si tratta di un periodo che ha inciso con forza nella coscienza italiana, ma che non è stato a tutt’oggi ancora storicizzato, restando irrisolto per molti aspetti. Questo spiega alcune prese di
posizione anacronistiche da entrambi i versanti più estremi della politica. Si continua a parlare di fascismo con un’anarchia concettuale che non ha basi solide. Non siamo pronti. Basti pensare alle critiche scomposte ricevute dall’opera di ricostruzione realizzata da Renzo De Felice. Si tratta insomma di una ferita aperta, che in un paese che vive sul mito fondante del Risorgimento ha ancora bisogno di tempo per cicatrizzare.
Lei ha insegnato Storia dell’Europa contemporanea: a quale periodo del passato sono a suo avviso assimilabili gli anni Venti del Duemila?
Non credo ai ricorsi né tantomeno alla massima ciceroniana secondo cui la Storia è maestra di vita. L’essere umano, purtroppo, tende a compiere sempre gli stessi errori in forma di diversa, con gli strumenti che il presente gli concede. La Storia non preconizza il futuro, ma può fornire i codici per comprendere l’attualità e dare senso a ciò che sta accadendo. Galli della Loggia ha parlato di uso politico dell’ignoranza della Storia, cioè della tendenza a tirala per la giacca e renderla strumentale a posizioni diverse o addirittura contrastanti. E’ un massima che oggi può valere per Gaza, Israele, la Siria, la Russia e l’Ucraina: ci si schiera e si costruisce un teorema in base a una porzione di Storia. Ma essa non si ripete, e anche se le lezioni si imparano non è detto che l’uomo sappia evitare sbagli già commessi. Per questo è importante conoscere la
Storia: il prezzo di non farlo è condannarsi a non comprendere l’epoca in cui si vive.