AGI - Le 19 donne protagoniste della mostra “Faghan. Figlie dell’Afghanistan”, in corso a Roma fino al 16 novembre presso le Officine Fotografiche, sono riuscite a scappare dall’inferno dei talebani e oggi vivono in Italia da rifugiate. Le loro storie, confluite in bellissimi scatti fotografici e in un docufilm inedito, ci restituiscono esistenze dinamiche e ricche di progetti, prima che i talebani tornassero al potere nell’agosto 2021, cancellando tutti i loro diritti: erano studentesse universitarie, operatrici umanitarie, guide turistiche, campionesse sportive, attiviste per i diritti delle donne. Tre anni fa sono state costrette a una fuga angosciosa, vedendo i loro sogni sgretolarsi, forzate ad abbandonare una terra che, nonostante tutto, continuano ad amare con profonda nostalgia. A questo punto per le afghane, l’unica scelta è stata – ed è tuttora - tra la morte sociale e la fuga all’estero.
“Ora vivo in Italia dove posso godere dei diritti umani fondamentali: ho la libertà d’espressione, la libertà di scegliere cosa fare, cosa studiare, che lavoro intraprendere, come vivere. Poi penso: ma perché non posso godere di questi diritti a casa mia, nel mio Paese, con la mia famiglia? Perché oggi sono qui in Italia? Perché sono dovuta diventare una rifugiata, per godere di questi diritti?”, si chiede Mahdia, 19 anni, già campionessa nazionale di Taekwondo in Afghanistan, ora parte della squadra olimpica rifugiati, studentessa e attivista.
Intanto a Kabul la situazione è ulteriormente peggiorata: le ultime leggi varate dai talebani vietano alle donne di mostrarsi in pubblico, di spostarsi da sole, addirittura di far sentire la propria voce, dopo averle già chiuse le porte di scuole, università, istituti di bellezza, palestre, negandole una passeggiata al parco e persino di andare al lavoro. “In realtà l’Afghanistan era un Paese molto allegro, felice, un Paese di socializzazione, musica e arte, espressione di vita e di colore. L’idea era di raccontarlo a tutti attraverso queste rifugiate afghane che da tre anni in Italia si stanno reinventando un’esistenza. Con questa mostra fotografica e il documentario abbiamo voluto restituire loro voci e volti, ridare loro una fisicità e una dignità”, ha detto al vernissage Flavia Mariani, responsabile comunicazione di Nove Caring Humans, una delle poche Ong italiane ancora operativa in Afghanistan con una serie di progetti a supporto di donne capofamiglia bambini e disabili alle prese con una grave emergenza economica e umanitaria.
La mostra fotografica, con scatti di Simona Ghizzoni, e il documentario inedito di Emanuela Zuccalà fanno parte del progetto “I nostri diritti: dalla negazione all'acquisizione dei diritti per le donne afghane", realizzato proprio da Nove Caring Humans e dall’agenzia Zona. L’obiettivo è anche quello di promuovere la conoscenza della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea da parte delle afghane rifugiate in Italia, per sottolinearne l’importanza attraverso le testimonianze di chi se li è visti negare. Le 19 protagoniste del progetto hanno partecipato a una serie di workshop di ascolto e confronto sul tema, organizzati dall’Ong romana, e parallelamente sono state coinvolte da Zona come protagoniste di un set fotografico e del documentario. L’intero percorso è stato finanziato da ActionAid International Italia E.T.S. e dalla Fondazione Realizza il Cambiamento nell'ambito del progetto The Care – Civil Actors for Rights and Empowerment, cofinanziato dall'Unione Europea. Nel fotografare queste donne, Simona Ghizzoni ha immaginato di restituire loro la possibilità, che in Afghanistan è esclusivamente maschile, di entrare in uno studio fotografico per il puro piacere di farsi ritrarre. Le donne si sono truccate, vestite e pettinate in autonomia, come solevano fare prima della censura talebana, per offrire all’obiettivo la loro rappresentazione più autentica. “Nel consultare fonti di prima mano sulla fotografia di studio in Afghanistan, mi sono resa conto che dal primo regime talebano negli anni ’90 in poi, di donne non c’è più traccia. Questo è un brutto segnale, un indicatore del fatto che vengono cancellate e assieme a loro anche i loro diritti, diventando di fatto invisibili socialmente”, ha riferito Ghizzoni.
Ad accompagnare le fotografie, un cortometraggio con la regia di Emanuela Zuccalà che, con interviste e video esclusivi della presa di Kabul nel 2021, approfondisce le storie di cinque di loro. “Quello che emerge è che sono tutte storie di ragazze come le nostre figlie, come qualsiasi ragazza italiana, ma all’improvviso sono state catapultate nel Medioevo più assoluto e si sono trovate davanti quella mitologia nera dei talebani di cui avevano sentito parlare dai genitori. I loro racconti scardinano anche uno stereotipo su migranti e rifugiati: loro volevano stare a casa loro, ma per ragione di diritti umani violati non hanno potuto farlo”, sottolinea la giornalista e filmmaker Zuccalà. Le immagini dell’Afghanistan, un Paese bellissimo ma poco noto da questo punto di vista, contenute nel documentario sono inedite e di prima mano, trasmesse da un regista afghano anonimo per motivi di sicurezza.
Il titolo “Faghan” della mostra - a cura di Giulia Tornari - significa in lingua dari un gemito, un pianto di dolore. La parola è tratta da un verso di “Figlia dell'Afghanistan” della poetessa Nadia Anjuman (1980-2005), picchiata a morte dal marito che non tollerava la sua indipendenza di donna e di intellettuale affermata. “Libertà, per me, significa avere il diritto di scegliere. Libertà è avere il diritto all’istruzione. Libertà è l’orgoglio di essere donna senza la paura che, proprio perché sono donna, non posso essere libera”, conclude Sonia, 30 anni, in passato autista del primo e unico servizio di trasporto locale in Afghanistan gestito da solo donne per le donne, il “Pink Shuttle”, ora rifugiata a Verona con la sorella diciassettenne.