AGI - Gli sciami dei cacciabombardieri che cercavano di inserirsi nelle maglie serrate della contraerea delle portaerei e delle navi di scorta erano una costante della guerra nel Pacifico, ma un singolo velivolo all’attacco come quel 21 ottobre 1944 non s’era mai visto. Il nome del pilota che apriva una pagina di storia lanciandosi contro l’ammiraglia della Marina australiana, l’“Australia”, al largo dell’isola di Leyte, sui libri non c’è finito perché è ignoto, ma il suo gesto sì, perché viene considerato il primo dei circa quattromila kamikaze che tentarono disperatamente di invertire il corso della guerra. La bomba da 200 kg sotto la pancia dello Zero giapponese non esplose perché non era stata innescata, i danni per l’impatto e la benzina a fuoco furono limitati, ma le vittime furono comunque una trentina. Il Giappone stava raschiando il fondo del barile in quel conflitto ormai sulla difensiva e non aveva più i mezzi per opporsi allo strapotere militare e industriale alleato che con la flotta minacciava le coste dell’Impero del Sol levante e con le Superfortezze volanti B-29 lo bombardava.
Tutti i piloti si offrono volontari al contrammiraglio Onishi
Nella battaglia del Golfo di Leyte l’aeronautica nipponica disponeva di soli 40 velivoli a supporto della flotta alla quale si chiedeva un disperato sacrificio. E dalla disperazione venne partorita dal contrammiraglio Takijiro Onishi l’idea di una squadra di piloti suicidi che si sarebbero dovuti lanciare sui ponti delle navi nemiche. A essi venne applicato il termine Kamikaze, che significa “vento divino”, evocando il provvidenziale tifone che nel 1281 annientò la flotta di invasione dell’imperatore mongolo Kublai Khan salvando il Giappone. Avrebbero dovuto far ripetere la storia e quando il 20 ottobre si chiesero volontari disposti a sacrificare la propria vita per la Patria e per l’imperatore, i 24 piloti del 1° Stormo si offersero tutti. Erano poco addestrati perché le perdite erano state alte e non c’era tempo per formarli ai combattimenti, dove peraltro gli americani mettevano in linea caccia più competitivi di quello che era stato il sorprendente Mitsubishi A6M che tutti conoscono come Zero. Per l’ultimo volo importava solo che portassero una bomba da 250 kg e che il pilota fosse lucido nel puntare il bersaglio nell’inferno della contraerea andandosi a schiantare sul ponte della nave.
Primo affondamento, il devastante effetto psicologico e le contromisure
Il primo successo venne colto il 25 ottobre, con l’affondamento della portaerei di scorta americana “St. Lo”. L’effetto psicologico sugli alleati fu devastante, perché tutto questo era al di fuori della logica e della mentalità occidentale. I giapponesi vennero invece incoraggiati a sviluppare la nuova tattica, realizzando anche un apposito velivolo, in realtà una vera e propria bomba volante a razzo, lo Yokosuka Okha, o il Nakajima Tsurugi costruito in economia in legno. In pochi mesi le missioni suicide furono oltre duemila, e i rincalzi non mancavano mai. Se intercettati per tempo dai piloti americani, per i kamikaze non c’era scampo, e ben presto gli alleati introdussero le contromosse col fuoco dell’antiaerea, letale per chi sceglieva la picchiata in verticale perché consentiva un micidiale tiro incrociato alle navi di scorta. Il più alto numero di attacchi suicidi si registrerà il 6 aprile del 1945 nella Battaglia di Okinawa, quando vennero scatenati a ondate poco meno di 1.500 aerei contro la flotta d’invasione. I giapponesi affondarono 21 navi nemiche. Meno del 10% dei piloti, comunque, riusciva nell’intento di colpire il bersaglio. I dati ufficiali statunitensi e nipponici sono discordanti. Secondo i primi, i kamikaze affondarono in totale 34 navi e ne danneggiarono 360, mentre per i secondi quelle colate a picco furono 80 e quelle colpite 195. Si stima che nella fase finale della Battaglia del Pacifico i piloti suicidi provocarono circa l’80% delle vittime alleate.
Il creatore si squarcia il ventre dopo aver ascoltato alla radio la resa di Hirohito
Con la resa del Giappone, determinata dallo scoppio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki e annunciata il 15 agosto 1945 dall’imperatore Hirohito che per la prima volta aveva fatto udire la sua voce al popolo tramite la radio, Onishi scrisse quello stesso giorno una lettera-testamento ai giovani giapponesi rievocando i kamikaze caduti, e fedele al codice d’onore del Bushido scelse il suicidio rituale del Seppuku. Si squarciò il ventre ma non riuscì ad arrivare a recidere la vena giugulare. Agonizzò per diciotto ore prima di spirare: aveva espressamente rifiutato le cure mediche.
Le esperienze in Germania e in Italia, tra storia e propaganda
L’idea dei piloti suicidi era germogliata anche nei Paesi dell’Asse, ma con profonde differenze rispetto all’esperienza giapponese. Nella Germania nazista, alla vigilia della catastrofe, un’ormai dissanguata Luftwaffe creò un’unità segreta, il Sonderkommando Elbe. Il 7 marzo 1945 vennero richiesti volontari per missioni speciali e rischiosissime. Il mese dopo circa 180 Messerschmitt 109 vennero inviati in massa contro una gigantesca formazione di 1.300 bombardieri americani scortati da 800 caccia. I piloti dovevano puntare il bersaglio e lanciarsi col paracadute prima dell’impatto: coraggiosi ma inesperti, furono falcidiati. Si salvarono quelli tornati indietro per problemi meccanici (circa un terzo) e appena una decina sopravvissuti agli scontri. Veri e propri kamikaze erano invece i piloti dello squadrone Leonida (5° bombardieri, Kampfgeschwader 200). Entrarono in azione contro l’Armata Rossa in vista di Berlino, attaccando i ponti costruiti dai sovietici sul fiume Oder con i pochi caccia Messerschmitt 109 e Focke-Wulf 190 rimasti, con i serbatoi semivuoti e imbottiti di esplosivo. Secondo la propaganda di Goebbels 35 piloti dei 70 volontari del gruppo, sacrificando la loro vita avevano distrutto 17 ponti, ma non esiste alcun riscontro. Per diverso tempo, prima e durante la guerra, si vociferò che pure nella Regia Aeronautica vi fossero unità addestrate a lanciarsi contro il naviglio nemico a costo della vita. In realtà i piloti italiani, abilissimi nella specialità degli aerosiluranti e non solo, condussero missioni che suscitarono l’ammirazione anche dei nemici per l’ardimento con mezzi tradizionali, come i trimotori Savoia Marchetti SM-79, dei quali va ricordata la 278ª squadriglia “Quattro gatti” di Carlo Emanuele Buscaglia. Il nome, ideato con ironia dal pilota acrobatico Eugenio Sirolli, testimoniava eloquentemente quanto fossero pochi. Valorosi sì, ma nessuno con velleità suicide: quella era stata una fantasiosa creazione della propaganda fascista.