Gianluca Peciola, ne “La linea del silenzio” (ed. Solferino) racconta cosa si muove intorno ai non detti della sua famiglia, della sua identità, cosa comporti vedere incrociata la propria storia personale con una delle pagine più complesse e irrisolte della Storia di questo paese.
“Il libro nasce da una ricerca personale e intima. Quella di un ragazzo che si interroga sulle proprie origini, sul rapporto tra i propri genitori. Io porto il cognome di mia madre, perché mio padre non mi ha riconosciuto. A dieci anni però ho saputo che quello che io chiamavo zio, era in realtà mio padre. Quindi le domande erano tante: Ero stato desiderato? i miei genitori erano legati da un rapporto di amore? Perché decidono di avermi nonostante la complessità della loro condizione? Quando c’è un’infanzia così particolare e un rapporto con la verità così controverso, le domande arrivano fino alla radice dell'identità personale" racconta Peciola all’AGI.
L’autore scoprirà che sua sorella non si trova in carcere per aver commesso un omicidio a seguito di un incidente d’auto (come gli verrà raccontato inizialmente), ma per aver partecipato alle azioni armate delle Br ed essere stata una delle ultime a vedere il segretario della Dc ancora vivo. “Molti si aspettano che questo sia un libro sulle Br e sul sequestro Moro o focalizzato sulle vicende di mia sorella. - spiega Peciola - Certo c'è questa parte di Storia del paese che si intreccia con la mia, ma penso sia più un libro sulla ricerca dell'identità, sulle fonti di accesso al paterno, sul valore del riconoscimento e della legittimazione in ambito familiare e sociale, è quindi anche un romanzo di formazione oltre a essere un memoir. C’è anche il rapporto con una sorella che riscopro durante le visite in carcere e attraverso lo scambio epistolare. Lei per me era anche la via di accesso più diretta alla figura di mio padre, di nostro padre, morto quando avevo quattro anni”.
Laura aveva fatto una scelta estrema, il primo sentimento dopo aver appreso la sua scelta fu una dolorosa incredulità, poi la vergogna e infine, grazie a mia madre, la riscoperta della possibilità di un nuovo rapporto
“Mia madre mi comunicò l'identità di mio padre e, insieme, l'impossibilità di condividere questa verità così importante. Non devi dirlo a nessuno fece alla fine del suo racconto. Custodire questo segreto significava anche rispettare e onorare un patto di lealtà con lei. Non potevo tradirla, non potevo tradire quella consegna così intima e delicata. A trent’anni ho sentito l'esigenza di rivelare la verità a tutti: un gesto liberatorio. Ma quelle domande senza risposta rimasero spine dolorose ancora per anni. Questa rivelazione, l'aver messo in ambito familiare i nomi al posto giusto, aver riaffermato una mappa familiare nuova e libera dal patto della menzogna è stato appunto liberatorio, ma il tormento sulle origini, sul motivo di quel patto rimase accesso e presente”.
“Anche dopo quel rito, dopo quel momento in cui al centro del cerchio familiare sfogliavo le foto dell’album di famiglia e facevo entrare Giorgio Braghetti nella nuova veste di padre, il richiamo verso la verità rimase pressante. Ho iniziato questo libro spinto da questa doppia esigenza: capire e ricostruire. All'inizio questa ricerca era carica del pregiudizio nei confronti di mio padre, come se lui fosse all'origine del patto del silenzio, lui la figura chiave. Ho finito il libro riconciliandomi con lui, con mia madre, con la loro e la nostra storia. Qualcuno dice che mi sono denudato, in realtà mi sono rivestito di una nuova identità. - prosegue Peciola – La scrittura è stato uno strumento utile. Uno dei motivi per cui ho scritto questo romanzo è questo: pubblicamente sono stato battezzato con il nome di quella paura e di quella vergogna, pubblicamente con la scrittura rimetto al centro le origini di quel rapporto, la fonte, che, ho scoperto, era una fonte di amore e complicità tra mio padre e mia madre”.
Per Gianluca Peciola, Laura “è stata una figura importante, per il suo ruolo formativo, nelle sue lettere dal carcere mi suggeriva le prime letture, mi insegnava il valore dello studio. Io venivo da una famiglia umile e studiare era considerato importante ma certo non era tra le priorità, attraverso Laura ho capito che si trattava invece anche di una forma di rispetto e di una responsabilità verso chi si prendeva cura di noi. Questo avveniva negli anni ‘80, quando iniziava il corso del disfacimento sociale e morale del Paese, del benessere individuale a tutti i costi anche a scapito degli altri”
Quella stagione politica, quella degli anni '70, gli anni della lotta armata anche, i 55 giorni del sequestro che tennero l’Italia con il fiato sospeso, furono per un’intera generazione anche anni in cui ci si trovava di fronte a una scelta, si sceglieva un campo etico, politico: bisognava capire da che parte stare. Il 1978, nella capitale è anche l’anno della strage di Acca Larentia, dove in un attentato rivendicato dai Nuclei armati per il contropotere territoriale, vennero assassinati due ragazzi giovanissimi. Lo scontro politico si consumava a tutti i livelli, anche con l'uso delle armi da parte di gruppi minoritari.
“Laura aveva fatto una scelta estrema, il primo sentimento dopo aver appreso la sua scelta fu una dolorosa incredulità, poi la vergogna e infine, grazie a mia madre, la riscoperta della possibilità di un nuovo rapporto nonostante le sbarre a dividerci. È stata una scoperta importante che ovviamente ha segnato la mia vita. Era una persona adulta, la più colta del mio mondo, che si soprattutto nel periodo dell’adolescenza mi ha mandato messaggi cruciali per la crescita soprattutto sul valore dello studio e del lavoro, sulla necessità di essere coerenti - racconta Peciola che è stato per diverse stagioni consigliere di Sel in Campidoglio - La Lotta Armata è stata una pagina di una stagione di rivolta sociale. È la parte sbagliata e drammatica di una storia politica complessa e ricca, come quella di chi ha attraversato i movimenti sociali con un obiettivo rivoluzionario. Ci sono stati movimenti che hanno attraversato gli anni ‘60 e ‘70 e hanno provato a dare risposte alla enorme questione sociale presente nel Paese. Risposte che evidentemente non arrivavano dall’arco costituzionale di quel periodo. Sono stati anni di cambiamenti anche positivi, di riforme sui diritti civili e sulla sanità. Anni in cui una parte significativa della società ha iniziato a dire che il modello economico e di democrazia vigenti non erano in grado di assicurare sicurezza e giustizia sociale, futuro, pace. Ha iniziato a chiedere una estensione dei diritti, ha chiesto di più. Più diritti, più potere alle classi subalterne, ha preso in considerazione la possibilità della sovversione e del ribaltamento dell'ordine economico e sociale dominanti. E qui lo Stato ha vacillato, si è fatto anche tiranno nelle risposte attraverso l’uso della forza, la sospensione dello Stato di diritto. A mio zio Angelo, l'uomo che mi ha fatto da padre, il “padre leggero” come lo chiamo nel romanzo, riservo il racconto di una operaio che inizia a vedere un cambiamento pericoloso per la sua condizione, a veder cedere sotto il peso di interessi più grandi alcune garanzie conquistate nel tempo”.
“A metà degli anni ‘80, io ho fatto una scelta diversa da quella di Laura, seppure le porte della Lotta Armata in quegli anni fossero ancora aperte. È stata una scelta di radicalità e sovversione, ma non armata. Posso dire che "La linea del silenzio" è anche un libro su che mette al centro lo sguardo in un bambino prima e di un adolescente poi su vicende travolgenti, drammatiche, grandi come la Storia del Paese degli anni '70. Su come si possa trovare un equilibrio tra la condanna verso la scelta della propria sorella e il richiamo dei sentimenti e delle appartenenze".
Ma alla fine sua sorella quale insegnamento le ha lasciato? “Difficile rispondere, certamente ha avuto un ruolo importante nella scelta di riprendere gli studi e poi di approdare all'Università. Il messaggio di Laura per me è stato: “ce la puoi fare”. Insieme ad altri (pochi) adulti che mi sono stati vicino durante l'adolescenza, ha fatto luce dove non immaginavo neanche esistesse la possibilità di un cammino”.