AGI - “Quando ero bambino negli anni ’80 c’era già la crisi ambientale. Se la crisi è un fatto straordinario, come è possibile che ci sono già due generazioni che vivono questa crisi e tutti gli indicatori mostrano che c’è un peggioramento?” È la domanda che si pone Filippo Menga, autore del libro “Sete” uscito recentemente per Ponte alle Grazie e intervistato da Agi.
Nel saggio, l’autore analizza in maniera puntuale la crisi dell’acqua, ma anche la storia di un movimento ambientalista che a partire dagli anni ’70 ha iniziato a interessarsi all’ambiente e quindi anche alle crisi idriche. “Negli anni ’70 si è tenuta la prima conferenza Onu sull’acqua che è stata l’unica fino al 2023. Prima della conferenza di New York c’era stato il lavoro del Club di Roma, con Aurelio Peccei che è stato un visionario per l’epoca. Oggi ci sono uomini facoltosi che tentano di salvare il mondo, mentre Peccei ha fatto un tentativo quando ancora non ci pensava nessuno. “I limiti della crescita” credo che sia il libro più venduto al mondo sulle questioni ambientali, sull’incompatibilità di una società che cresce senza limiti e un pianeta che ha dei limiti. Da lì in poi tutto è stato declinato anche sulla questione idrica. Ci sono state grandi crisi legate alla siccità, e questo ha contribuito a diffondere l'idea di una crisi idrica globale”.
Il libro muove quindi una critica a una crisi che diventa spot per le aziende, per i personaggi dello spettacolo che si lanciano in campagne per il pianeta o per la sostenibilità senza centrare mai il cuore del problema e le sue cause strutturali. Con l’avvicinarsi dell’estate, anche in Italia, il faro si riaccende sull’uso consapevole dell’oro blu invitando i cittadini ad un consumo responsabile, ma Menga pur non criticando, fa luce sulla questione “i consigli non son sbagliati. Io sono il primo che chiudo il rubinetto quando mi lavo i denti, ma è chiaro che è una goccia nell’oceano. Il punto è che a livello globale circa il 10 per cento del consumo idrico è legato alle persone (rubinetti, città, fontane), il 60-70 per cento all’agricoltura, il restante all’industria e alla produzione di energia. Detto questo è chiaro che noi come individui possiamo fare bene poco. Secondo me, è intellettualmente e moralmente scorretto voler trasferire sugli individui la responsabilità”.
Da qui la critica al sistema che in larga parte è responsabile della crisi e si propone di guadagnare affrontandola. È il funzionamento del capitalismo: la «crisi» è un suo elemento cardine, e nel momento in cui, com’è il caso della crisi ecologica, e idrica in particolare, diviene strutturale, il processo di mercificazione prevede che la stessa gestione della crisi generi profitti. Sete è un’impietosa critica alle strategie messe in atto per arginare la crisi idrica, e un grido d’allarme sugli effetti devastanti di una fede cieca nel mercato. Ma allo stesso tempo è una profonda riflessione sul nostro rapporto con la natura e un potente richiamo all’azione: «Non è mai troppo tardi per prendere posizione e invertire la rotta del discorso».
“Le multinazionali hanno grandissimo potere e ci sono spesso delle contraddizioni collegate al consumo di risorse legate alla produzione industriale di beni che crea crisi idriche locali. Le crisi idriche sono migliaia in Italia, in Europa e ovunque, e sono sempre legate al loro contesto. Sono molto spesso legate a conflittualità tra il settore privato e il settore pubblico, o tra il settore privato e le comunità locali. Il caso dell’acqua in bottiglia è emblematico e vede coinvolti diversi comuni anche in Italia” spiega l’autore.
Finora abbiamo parlato dei privati, ma i decisori politici dove sono? “Non si sono mai spesi tanti soldi come oggi per il settore idrico. Eppure, sembra che siamo sempre più dentro a questa crisi che sembra aggravarsi. Manca l’autorità forte delle istituzioni pubbliche, del settore pubblico e delle istituzioni internazionali. Il problema della plastica è molto collegato a quello dell’acqua, per il tema delle micro e nano plastiche che ingeriamo, eppure non esiste un trattato internazionale. Se ne parla, ma non esiste. Ci sono problemi pressanti che non vengono affrontati o li si affronta con lentezza estrema” e “mancano dei piani di lungo termine responsabili in cui ci si ricollega al fatto che bisogna essere compatibili con il ciclo dell’acqua (e dell’ambiente). Di acqua oggi ne parliamo tanto perché oggi è un problema. Se le cose vanno bene non ne parliamo e la diamo per scontata. Questo è il nocciolo del problema”.
Ma sta crescendo anche a destra un movimento ambientalista? “Storicamente, il problema dell’ambiente è stato appannaggio delle sinistre. Anche in Italia. L’impressione che ho, è che a livello globale, c’è una ripresa delle destre e del populismo e questo ci pone di fronte a un altro interrogativo: è compatibile il nazionalismo, la difesa del territorio, con la sfida globale della difesa dell’ambiente? Oggi nella nostra vita quotidiana utilizziamo oggetti che hanno fatto il giro del mondo. – prosegue Menga - Le destre si stanno accorgendo dell’ambiente, magari con un punto di vista diverso, nell’ottica di preservare il proprio territorio e non tanto con uno spirito globalista. Però, oggettivamente fuori dall’Italia, sembra esserci più attenzione, perché i partiti dei Verdi crescono, mentre da noi è pressoché sparito. L’Italia è un’anomalia e i giovani che sono così interessati ai temi ambientali rappresentano un bacino di voti che i partiti stanno perdendo”.