AGI - Finalista allo Strega 2022 e premiata da un grande successo di vendite con ‘Niente di vero’, Veronica Raimo può dirsi una scrittrice dallo stile intensamente laconico. Fedele del precetto carveriano di non usare facili trucchi, mira sempre alla qualità per sottrazione ed all’analisi dei sentimenti scongiurando il sentimentalismo. Il rimarchevole risultato è quello di valorizzare attraverso il comico una non comune tensione alla profondità. L’AGI l’ha incontrata per parlare della sua raccolta di racconti ‘La vita è breve, eccetera’ di recente uscita per Einaudi.
Dopo il successo di ‘Niente di vero’ la decisione di pubblicare dei racconti in larga parte già editi non pare in linea con i cosiddetti meccanismi del mercato: cosa l’ha motivata?
L’opportunità. Desideravo lasciare la strada dell’autofiction, ma in mancanza di una storia su cui lavorare anche darmi tempo. In effetti i racconti non sono oggetto di desiderio del mercato, anche se la tendenza è in mutazione, ma da lettrice li ho sempre amati ed in termini di scrittura credo rappresentino un modo diverso per farsi conoscere. Nascendo di solito dietro commissione di un giornale o per un’antologia capita siano meno letti dei romanzi. E’ un peccato. Quelli che ho inserito in ‘La vita è breve, eccetera’ rappresentano tappe di un percorso a cui tenevo.
Nella loro introspezione ironica, le figure femminili a cui dà voce sono legate alla tradizione letteraria americana?
Scritti nel corso di 15 anni, i racconti de ‘La vita è breve, eccetera’ risentono del mutare dei miei innamoramenti letterari. Mettendo in relazione il primo con l’ultimo noto io stessa uno sguardo diverso, come se ogni storia dialogasse con il proprio tempo. In termini generali ho sicuramente amato autori come Roth e Salinger e subito l’influenza della letteratura americana dei ’90 e primi ‘2000, specie quella che pubblicava Minimum Fax, perché sono stati gli anni della mia formazione di scrittrice. Ma anche con altri decenni avverto corrispondenza. A marzo uscirà per Accento una riedizione di ‘Schiavi di New York’ di Tama Janowitz di cui ho curato la prefazione. Vi si tratta di personaggi dalle esistenze sgangherate in cerca di sotterfugi per cavarsela, divisi tra menefreghismo e indolenza. Le loro vicende fotografano gli anni ’80 come un momento storico in cui l’idea di perseguire un obiettivo e farcela non era cosi abbagliante come oggi e le differenze tra chi aveva sfondato e chi no risultavano meno marcate. Anche nei libri questo tipo di caratteri è sparito, privandoci di ritratti intrinsecamente divertenti nel loro non avere riscontri di successo nella vita sociale.
Quanto è importante, scrivendo, mantenersi in relazione con una tradizione?
Sentendomi in connessione con ciò che si scrive oggi, ascolto scettica chi dice di leggere solo autori defunti. Anche in testi che temo potrebbero non piacermi cerco sempre di trovare qualcosa che solleciti il mio interesse, al di là dei pregiudizi. Quello che leggiamo in Italia è espressione dal mondo occidentale ed in particolare anglosassone, mentre della stessa scena europea si sa poco. Invece sarebbe importante poter interpretare la globalità del presente attraverso la scrittura. Più che celebrare la nostra tradizione, in parte schiacciante, vorrei essere più informata sul pensiero delle scrittrici e degli scrittori russi del nostro tempo, ad esempio.
Perché si stenta a seguire la lezione di ‘Lunar Park’ di Ellis, in base alla quale l’autofiction dovrebbe mantenere una vena ironica?
Se devo pensare a un autore che mi ha ispirato per ‘Niente di vero’ più di Ellis mi viene in mente David Sedaris, che nella sua raffigurazione in chiave comica di storie famigliari avverto affine anche per la sconnessione architettonica degli episodi che racconta. Nel complesso della sua produzione, ed in particolare in ‘Lunar Park’, Bret Easton Ellis si è dimostrato capace di creare strutture narrative molto più complesse di quelle che io riesca concepire. Per quanto riguarda l’ironia ritengo che le scelte siano personali. Inoltre in questi anni sono stati scritti molti memoir, centrati su storie contrassegnate da un trauma. E’ un genere diverso dall’autofiction, che effettivamente richiede di inventare ed esagerare, come ho fatto io.
Un antico tema di dibattito che pare ormai superato: l’autore dovrebbe scomparire in favore dell’opera?
Per quanto mi riguarda rispondo di sì. In linea generale credo vada distinto il caso dell’autore che in qualche specifica occasione sente di impegnarsi pubblicamente da quello di chi trasforma l’impegno in super esposizione e costante autopromozione. Io comunque seguo processi distinti nel giudicare un’opera e chi l’ha scritta e nonostante trovi deprimente la visione di scrittori impegnati a disquisire di temi di cui non sanno molto mi piacerebbe non ci fosse un codice adattabile a tutti.
Da lettrice, a suo parere ci sono voci sottovalutate in Italia?
Credo non sia una questione legata alle dimensioni delle case editrici, ma semplicemente manchino le risorse per il lavoro di scouting che si svolgeva un tempo. Il mercato si è strutturato in modo che vengono prodotti tanti libri, e per il combinato disposto tra legge dei numeri e scelte promozionali alcuni testi validi non vengono visti. L’unica soluzione sarebbe una decrescita: curare meglio un numero minore di pubblicazioni dando tempo ai libri di farsi conoscere e modo alle persone che lavorano nell’editoria di dedicargli più energie.
Del romanzo di quale autrice o autore sta aspettando l’uscita?
Aspetto Claudia Durastanti, che considero tra le nostre migliori scrittrici perché ogni volta sceglie di cambiare mettendosi in gioco e rischiando.
Sta scrivendo?
Ho finito un lungo racconto di genere fantastico che non uscirà prima di un anno. Mentre non ho ancora un romanzo pronto.