AGI - La sorpresa totale dell’eclatante raid tedesco sul porto di Bari il 2 dicembre 1943 era niente rispetto alla scoperta che gli Alleati stavano stoccando migliaia di bombe all’iprite da utilizzare probabilmente sulla Linea Gustav.
La sanguinosa battaglia sul fiume Sangro si era appena conclusa con la vittoria dell’8ª Armata di Bernard Law Montgomery, ma senza lo sfondamento strategico che doveva dare una svolta alla guerra in Italia, quando sul cielo di Bari illuminato dalle tinte del tramonto si erano materializzare all’improvviso le sagome di 88 bombardieri Junkers Ju-88 della Luftwaffe.
La tempistica era stata perfetta, i caccia alleati erano rientrati alle basi, il diversivo per l’accecamento dei radar con migliaia di striscioline di stagnola aveva funzionato e il porto era ingolfato da una quarantina di navi da carico e da guerra. Gli esperti piloti tedeschi, decollati dagli aeroporti del nord Italia e da Atene, avevano solo l’imbarazzo della scelta sui bersagli a distanza ravvicinata e raggruppati.
Gli sganci erano iniziati poco dopo le 19.30 da bassissima quota e il risultato era stato devastante. La Luftwaffe non compiva da tempo un bombardamento su vasta scala e gli Alleati da Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, non erano mai stati colti così di sorpresa. Esplosioni e fiamme dappertutto. Pure l’acqua del porto bruciava. Antonio Virno era un giovane che lavorava per gli inglesi alla mensa militare. Aveva appena fatto in tempo a tuffarsi in mare e a mettersi al riparo degli scogli, assieme al suo ufficiale.
«Era un inferno. Ho visto l'inferno a 17 anni. Indescrivibile quello che accadeva sull'acqua e sulla terra. Morti dappertutto, esplosioni senza tregua». All’àncora c’era anche una nave americana di classe Liberty, la SS John Harvey. Era salpata il 18 novembre da Orano, in Algeria, ai comandi del capitano Edwin F. Knowles, e nelle stive portava duemila bombe M47A1, ognuna delle quali con 60-70 libbre di gas mostarda: la terribile e temutissima iprite della prima guerra mondiale, vietata per l'utilizzo dalle convezioni internazionali che però non ne proibivano la produzione, e sulla cui distribuzione il presidente Franklin Delano Roosevelt aveva segretamente tolto il veto ad agosto.
Lo scafo aveva fatto tappa ad Augusta, in Sicilia, per un’ispezione del 7th Chemical Ordnance Company, e il 26 novembre aveva fatto rotta verso Bari, dov’era stata centrata la sera del 2 dicembre dai bombardieri tedeschi ed era esplosa uccidendo il comandante e 77 uomini di equipaggio. Parte del carico era fuoriuscito disperdendosi nell’aria in alte concentrazioni e parte ancora era colato a picco nelle acque portuali.
Il raid della Luftwaffe aveva provocato l’affondamento di 18 navi e il danneggiamento di altre 15, otto delle quali gravemente, al prezzo di appena due apparecchi. Perdite pesanti, pesantissime, nonché la messa fuori uso del porto fino a febbraio. Quasi duemila le vittime tra militari e civili, a terra e in mare, nelle case e nelle imbarcazioni. Il cielo di Bari era illuminato a giorno dagli incendi e dalle continue esplosioni che non risparmiavano neppure la città. Il comando del generale Harold Alexander, a una dozzina di chilometri di distanza in linea d’aria, riportò la rottura di tutti i vetri.
I rifornimenti per l’esercito di Montgomery erano perduti, ma la vera portata del bombardamento emerse subito dopo, quando marinai, soldati, personale ausiliario italiano e cittadini baresi cominciarono a manifestare problemi respiratori e strane vescicole sulla pelle. Qualcuno capì subito di cosa si trattava, strinse le maglie della sicurezza e l’8 dicembre il Quartier generale alleato diffuse un memorandum nel quale si raccomandò di diagnosticare una generica “dermatite non identificata”.
Ai corrispondenti di guerra non venne fatta parola di quel problema collaterale, perché era estremamente imbarazzante dover ammettere che gli angloamericani si preparavano alla guerra chimica sul fronte italiano. Il comandante supremo Dwight Eisenhower istituì una segretissima commissione d’inchiesta che a marzo 1944 sancì che le “dermatiti” erano dovute alla contaminazione da gas mostarda fuoruscito dalla John Harvey, con la sottolineatura che gli Alleati non l’avrebbero mai usato se non per reazione al loro impiego da parte di Hitler.
Winston Churchill, da parte britannica, aveva fatto immediatamente classificare Top Secret la documentazione medica limitandosi a far apporre la formula ambigua sulle morti per iprite dovute a «ustioni a causa di un’azione nemica». Dopo sedici anni la documentazione americana venne declassificata ma solo nel 1967 l’Istituto navale pubblicò un saggio in argomento che sarà seguito dal volume di Glenn B. Infield “Disaster at Bari”.
Il riconoscimento dell’esposizione ai gas tossici da parte dei sopravvissuti avverrà solo nel 1986 e limitatamente ai fini pensionistici. Ancora a fine millennio, come riporta uno studio dell’Istituto di medicina del lavoro dell’Università di Bari datato 2001, si verificavano contaminazioni tra i pescatori che incappavano con le loro reti nelle bombe corrose dal tempo sui fondali.
C’erano stati centinaia di casi e almeno cinque decessi potevano essere imputati all’iprite dispersa nel 1943 durante un’azione di guerra avvolta dal mistero. Uno dei segreti meglio conservati della seconda guerra mondiale ha avuto comunque anche un risvolto positivo, grazie agli esperimenti del chimico Stewart Francis Alexander sui tessuti prelevati durante le autopsie delle vittime dell’iprite. Le sue scoperte, ampliate farmacologicamente da Louis S. Goodman e Alfred Gilman, sono state alla base della moderna chemioterapia per la cura dei tumori.