AGI - Ci vogliono cent’anni, dicono gli scienziati, per cambiare completamente l’acqua del Mediterraneo, perciò è vero che nel mare metropolitano “in cui si erano bagnati pure Totò e Eduardo” si conserva ancora la forma di quei corpi quando ci s’immergono i personaggi di Uvaspina. Romanzo d’esordio di Monica Acito, trentenne cilentana e forcellara d’adozione, pubblicato a febbraio scorso da Bompiani, è narrazione oscillante tra realtà e mitografia, tra i sapori di cozze crude e ragù di Domenico Rea e il gusto delle minestre maritate e dei migliacci di Giambattista Basile. È, se si predilige una comparazione musicale, partitura di 400 pagine su cui il costante vibrato dell’autrice – il medesimo che, ad ascoltarla, Acito porta nella voce – viene spezzato da sincopi e melismi e dissonanze in una prosa fiabesca, che abilita all’italiano la lingua napoletana in cui peraltro sembra pensato questo libro.
Concluso in un’estate da sonni sui balconi nel vicoletto di San Giorgio ai Mannesi, ambientato tra il decrescenziano vico Belledonne a Chiaia e il lacapriano Palazzo Donn’Anna, con incursioni a Procida e Posillipo, a Guardia Sanframondi e in una scarrupata casa cilentana, Uvaspina è la storia di una mamma – Graziella La Spaiata – di un padre – il notaio Pasquale Riccio – e di due fratelli, Minuccia e Carmine detto Uvaspina: lei comandata dall’arcana pazzia dello strummolo, la trottola di legno degli scugnizzi di un tempo che fu; lui destinato all’arcana categoria dei femminielli, la dolce e tragica terza declinazione napoletana senza la quale le altre due – l’uomo e la donna – sarebbero incomplete per consunta compiutezza dell’incastro. Non sono questi i soli personaggi: c’è un Antonio che frequenta sorella e fratello amando sole e luna (e ha gli occhi di colore diverso che ne tradiscono l’ambiguità), ci sono le parenti della mamma Spaiata e del padre notaio. Chi maga e chi perbenino. Chi di Chiaia e chi forcellaro, o forcellese, in quel secolare tozza tozza dove sbattono la sfida e il minuetto, la tarantella e le mazzate che il popolo e la borghesia napoletana s’infliggono da secoli calcando “le ossa di Partenope che stava al di là del mare, Partenope intera con le sue anime del Purgatorio, con i suoi palazzi barocchi e le case tinte di rosa pompeiano”.
Ambientato nell’oggi, Uvaspina è per la verità un romanzo acclimatato nel tempo senza tempo in cui vive – o sopravvive, se siamo vecchi quanto i nostri miti – chi si lascia carezzare dalla Sirena e dalla bella ’mbriana, dalla magia dei lessici e dalla vetustà dei gesti trascurando la fiscalità dei calendari, il teatrino ambientale dei libri gialli in costume, l’artefatto palcoscenico dei polpettoni d’epoca, il coatto tremendismo rapper (che, poi vedrete, non sopravviverà a Sergio Bruni).
Non si sa dove e come abbia attinto – non bastano gli studi di filologia, tampoco gli attrezzi della Scuola Holden – questa sua prosa mentis, Monica Acito, per partorire una storia che è già libro benchmark per la letteratura napoletana degli anni a venire. Ha letto sì Rea e Basile, ma l’ha impregnata l’olio drammaturgico del Ferdinando di Annibale Ruccello, e pure un Enzo Moscato, il quale racconta nelle memorie biografiche di avere assistito al rito del “chiummo” praticato dalla sorella grande, alla vigilia di san Giovanni Battista, proprio come accade nel romanzo a Uvaspina con Minuccia.
E dunque è giunta voce all’autrice, e non solo letteraria, dei riti di magia domestica che aboliscono i secoli d’ingombro tra le vaiasse di Giulio Cesare Cortese e la fattucchiera del Paese di Cuccagna di Serao, tra i rituali secenteschi affinché “nullo malo augurio po’ nce resta” e le residuali pratiche delle janare anche novecentesche. C’è l’eco di certi cupi capoversi di Mastriani, c’è l’odore di stampa stantìa delle raccolte poetiche digiacomiane riemerse dai banchetti di Port’Alba, c’è insomma una lingua in cui si ritrova “la chiacchiera saporita delle donne che inciuciavano, ma pure la sapienza elegante di cento professori giovani”.
Insomma un nuovo Cunto napoletano, finalmente eccolo qua.