AGI - Il cacciatore di nazisti per antonomasia, il superstite dell'olocausto Simon Wiesenthal, scrisse: "Per quanto durante la guerra potessimo aver desiderato la morte dei nostri aguzzini, dopo la guerra avevamo, nella stessa misura, il bisogno di trovarli vivi: prima che potessero morire, essi dovevano incontrare la giusta punizione."
Queste parole, tratte dal libro di Wiesenthal "Giustizia, non vendetta" sono perfettamente consonanti con lo spirito - la tensione morale - che ha animato un altro cacciatore di nazisti, il procuratore generale militare Marco De Paolis, il magistrato che ha perseguito penalmente i responsabili di molte delle stragi consumate dalle truppe di Hitler in Italia.
Di questa infaticabile, certosina ricerca della verità su massacri orribili e sui loro autori, si legge un avvincente racconto nel libro che Marco De Paolis ha scritto con Annalisa Strada, e il cui titolo, "L'uomo che dava la caccia ai nazisti", implicitamente autorizza il richiamo a Wiesenthal. Ma, diversamente dall'ebreo austriaco che nell'immediato dopoguerra si impegnò a stanare e a portare davanti ai giudici molti criminali di guerra, tra i quali Adolf Eichmann, il procuratore De Paolis ha agito non sospinto da una dolorosissima esperienza personale, ma per una "scelta etica", come spiega egli stesso nell'introduzione del libro, edito da Piemme, per "senso del dovere di dare risposta a chi aveva subito la più grande delle ingiustizie", per "onorare le vittime delle atrocità della Seconda Guerra Mondiale".
Il racconto, che si dipana efficacemente in prima persona e si rivolge al lettore con un 'tu' quasi a prenderlo per mano, parte da un antefatto decisivo: la scoperta, nel 1994 in un corridoio della Procura militare di Roma, a Palazzo Cesi, di quello che è passato alla storia come "l'armadio della vergogna". Conteneva centinaia di fascicoli sulle stragi, che l'allora procuratore generale militare Enrico Santacroce, "aveva destinato alla cancellazione dalla memoria", disponendo una giuridicamente inesistente "archiviazione provvisoria", che "di provvisorio non intendeva avere nulla".
La maggioranza di questi fascicoli, 214, arrivarono sulla scrivania di De Paolis, fresco di nomina a pubblico ministero militare di La Spezia, con competenza su un territorio vastissimo, dalla Liguria alla Toscana, dall'Emilia Romagna alle Marche, teatro di molte delle stragi naziste (anzi, "nazifasciste" come sottolinea De Paolis, benchè l'amnistia decisa alla fine della guerra abbia impedito di procedere contro gli italiani che si macchiarono di quel sangue collaborando con i tedeschi). Davanti a questa smisurata richiesta di giustizia, il procuratore confessa di essersi sentito "come uno che si trova da solo in mezzo a un campo di calcio su cui, in teoria, ci sarebbe da disputare una finale".
Sono state indagini difficilissime: a cominciare dall'accertamento dell'identità dei militari tedeschi, al reperimento negli archivi militari sparsi per tutta la Germania dei documenti sulla loro attività nell'esercito ("centinaia e centinaia di uomini dei quali ricostruivamo storia e carriera passo per passo"), alle complesse pratiche delle rogatorie internazionali, alla ricerca dei testimoni e delle prove. Con metodo e costanza, De Paolis è riuscito a portare alla sbarra i boia nazisti di San Cesario sul Panaro, Sant'Anna di Stazzema, Certosa di Farneta, Civitella, Cornia e San Pancrazio, Marzabotto, San Terenzo Vinca, Padule di Fucecchio, di Cefalonia, dei molti e poco noti eccidi perpetrati sull'Appennino tosco-emiliano, tra le province di Modena, Reggio Emilia e Arezzo.
A ciascuno di questi sanguinosi massacri è dedicato un capitolo, che racconta i fatti e i processi, conclusi quasi tutti con la condanna all'ergastolo degli imputati: un esito che comprova la solidità del lavoro investigativo condotto dal procuratore e dai suoi collaboratori. Ma al di là delle singole tragedie e delle loro vicende processuali, quello che impressiona di più nel è la descrizione della "accurata pianificazione" delle stragi, della strategia studiata dagli ufficiali nazisti per infliggere alla popolazione una "punizione esemplare", una "pratica di violenza e terrore" che nel gergo dei nazisti era chiamata "desertificazione".
Un termine che rispecchia l'atrocità delle loro intenzioni, una crudeltà rimasta intatta a distanza di decenni, come De Paolis ha constatato personalmente nei suoi colloqui con gli indagati, che gli sono apparsi come "la personificazione del male", come "criminali invecchiati fossilizzati nella loro ideologia di morte". Uomini segnati da un marchio permanente.
Segnate, ma diversamente, anche le loro vittime, sprofondate in una "voragine di dolore", accomunate dalla "assenza del sorriso", dagli sguardi "spenti e tristi", in cui "si leggeva ancora la paura". Da questi incontri, il magistrato ci racconta di aver "imparato una lezione semplice, al limite del banale, ma vera e fondamentale: bisogna essere buoni". E questa lezione il libro trasmette.