AGI - Quando la polvere rovente tornò a posarsi sul terreno della piana di Canne – era agosto, come oggi – e l’acqua dell’Ofanto finì di spingere verso il mare il sangue della meglio gioventù di Roma e d’Italia – un’intera generazione spazzata via nell’arco di un mattino – il Senato dovette porsi la domanda più difficile: chi ha potuto lasciare che tutto questo avvenisse? Domanda che toglie il respiro ai grandi stati colpiti dalle avversità quando ancora non sono divenuti imperi, e alla quale si risponde con la spasmodica ricerca di un colpevole.
Un colpevole forse c’era: Gaio Terenzio Varrone, il console demagogo e populista delle soluzioni facili, comandante di turno delle forze romane nel giorno della battaglia contro Annibale, l’uomo che aveva spinto quarantamila legionari nelle spire avviluppanti dell’esercito punico. Ma era il momento in cui lo Stato aveva più bisogno di istituzioni stabili, ed in più Varrone aveva avuto l’accortezza di rientrare in tempo per perorare la sua causa. Inoltre la consuetudine di crocifiggere il generale sconfitto non era certo romana; era, semmai, cartaginese. Non era cosa possibile.
Di colpevole, a questo punto, ne restava un altro. Anzi, diecimila: i legionari sopravvissuti al macello. Nacque in questo modo la storia tremenda delle Legioni di Canne, talmente nera da essere affidata a poche pagine di Livio e di Eutropio, ma anche talmente splendida da non potere essere ignorata: in fondo Roma fu anche questo, e non è per niente detto che fu la sua parte meno nobile.
Ora, per capire la tremenda e pervicace severità con cui gli scampati di Canne vennero trattati forse occorre fare un passo avanti, di pochi mesi. Dopo Canne infatti il Senato fu costretto a metter su in tutta fretta un altro esercito per bloccare un Annibale – si pensava – in corsa verso Roma. Talmente in fretta che si arruolarono anche gli schiavi e questi, questi sì, tradirono. Eppure, anche di fronte alla loro fuga che li avrebbe ben portati al patibolo e alla crocifissione, Roma non reagì. Ma, per l’appunto, di schiavi si trattava: non valevano nemmeno i chiodi da infilargli nel metacarpo.
No, i legionari no: erano cittadini, avevano giurato di accettare la morte per difendere la propria casa, e quindi per loro nessun perdono, proprio per l’entità senza precedenti della sconfitta. E il Senato sentenziò: non sarebbero mai tornati alla vita civile, avrebbero continuato sine die a servire nell’esercito, ma l’onore del riscatto non lo avrebbero avuto. Nessun impegno per loro nelle battaglie campali, solo ronde e scaramucce, tedio e noia e servizio in Sicilia, fuori dall’Italia, nelle regioni interne dove l’acqua scarseggia e il sole batte più forte. Lontano dalle città, e dalla civiltà, almeno dieci miglia. Soprattutto, di quei rimasugli di uomini senza gloria sarebbero state fatte due legioni, la Quinta e la Sesta, ed entrambi sarebbero state nominate “Cannensis”; come se ad ogni legionario fosse stato scritto sulla fronte, con la lama di un coltello, il titolo dell’infamia: “Quest’uomo venne sconfitto a Canne”.
Sì, la Repubblica provvedeva loro con i rifornimenti, ma è facile immaginare di quale qualità. E loro, i legionari di Canne, attesero comunque, nell’isolamento e nella vergogna, il momento del riscatto. Che pareva non giungere mai.
Quattro anni dopo l’umiliazione parve che il momento si realizzasse, quando fu loro concesso di prender parte all’assedio della Siracusa passata ad Annibale. Non si fecero pregare: fu una strage di rara violenza e cecità da cui non si salvò neanche Archimede. Dopo arrivò l’ordine di tornare all’accampamento: nella Sicilia interna. Passarono altri tre anni e Taranto si piegò sotto la loro spinta: ai dannati, a quel punto, avevano fatto rimettere piede su suolo italico e questo alimentò più di qualche speranza. E invece furono riportati sui monti siciliani.
Altri quattro anni e qualcosa si mosse: a Roma un giovane ambizioso, anche lui reduce di Canne ma scampato alla punizione, chiese di poter essere mandato in Africa ad aprire lì il fronte della guerra contro Annibale e i suoi cavalieri libici. Publio Cornelio Scipione era considerato un pericolo, e non senza motivo, dagli avversari e anche qualche amico. Qualcuno in Senato si ricordò che, nel marasma della sera di Canne, era stato lui a convincere a restare quanti – e non erano pochissimi – davano per perduta la Repubblica e volevano andare a fare i mercenari in Grecia e in Oriente. Così, per combattere in Africa, a Scipione vennero assegnati i suoi sodali: i soldati, cioè, ritenuti lo scarto della feccia di Roma. Se avesse avuto ragione lui, Annibale sarebbe divenuto un mucchietto di cenere da pesare nei secoli futuri; in caso contrario la Repubblica avrebbe avuto non uno, ma due problemi in meno: lo stesso Scipione e quelle due legioni che erano la cattiva coscienza di ogni buon cittadino.
È qui che questa storia di delitto e castigo, orgoglio e pregiudizio trova la sua nemesi e il suo riscatto.
Zama fu, per tanti versi, il negativo di Canne, nel senso che se a Canne l’esercito cartaginese si era fatto concavo per avviluppare i Romani a Zama l’esercito di Scipione costrinse l’avversario a farsi convesso. Ma Annibale sapeva il fatto suo e i Romani rischiarono, nel momento decisivo, di essere travolti dalla carica dei più fidati tra i suoi uomini: i veterani d’Italia. Quelli che a Canne avevano vinto.
I veterani avanzarono travolgendo i loro stessi alleati: avevano l’ordine di non fermarsi di fronte a nulla perché se Annibale avesse trionfato sul migliore dei generali romani la guerra sarebbe stata, nonostante i calcoli del Senato, vinta una volta per tutte.
Ma quando quei veterani bucarono le prime file avversarie, e lo fecero senza difficoltà, si trovarono davanti loro, la Quinta e la Sesta. Quelli che a Canne avevano perso. I bastardi senza gloria. La storia, a questo punto, non si ripeté.
Sarà perché il pregiudizio non era ancora spento ai loro tempi, ma gli storici romani che trattarono la materia della Battaglia di Zama non ci tramandano – eppure di solito lo fanno – scene di atti eroici compiuti da questi soldati: loro sia l’oblio. Eppure Roma, senza di loro, sarebbe stata con ogni probabilità una città punica di provincia. Anzi, talmente forte è questa lenta, strisciante e irrevocabile questa damnatio memoriae che nemmeno Hollywood con i suoi Russel Crowe ha mai pensato a farne un’epopea, anche se il racconto fa impallidire tutte le cariche dei seicento e i dollari d’onore che possono venire in mente.
Ci ha pensato – e la cosa fa riflettere – uno youtuber. Sì, uno di quelli che di solito vediamo impegnati nei tutorial dedicati alle padelle o alle delizie dell’orto. Roberto Trizio, invece, ha creato un canale con centinaia di migliaia di iscritti. Si chiama “Scripta manent”, e già il nome è un atto di ricompensato coraggio. Alle Legioni di Canne ha dedicato anche un libro, “I bastardi che vinsero Annibale”, edito da Cairo e che costa meno di 12 euro. Pare vada benissimo, e questa non è una sorpresa.
Ci voleva infatti un giovane youtuber per spiegarci che tutto si tiene: cultura, social, antichità e modernità. Ma anche il delitto e il castigo, ma anche l’orgoglio e il pregiudizio.