N essuna vicenda umana è più raccontata della guerra. C’è in Omero e in Virgilio, c’è nella Bibbia e nei canti medievali, ce n’è a profusione nei poemi epici e nella letteratura romantica. Per secoli ci si è concentrati su una sorta di nobiltà della guerra, persino nei suoi momenti più sanguinosi e dolorosi.
Nella lunga agonia del principe Andrej Bolkonskij, Tolstoj lascia vagare la mente del suo personaggio sul senso dell’esistenza, ma non gli permette di indugiare sull’insensatezza della guerra. Né lo fanno i personaggi di Hugo. Bisogna arrivare all’orrore supremo della Prima Guerra Mondiale per fare breccia in quella malintesa nobiltà e cominciare a raccontare la guerra per quello che è, privandola della sua epica: un assurdo massacro.
Certo non è la narrativa a impedire che l'atrocità si ripeta, ma la Seconda Guerra Mondiale aggiunge qualcosa, un nuovo tema: i crimini commessi sulla popolazione. La Shoah domina su tutti: la sistematicità dell’olocausto degli ebrei sopravanza nell’immaginario collettivo il terrore e la distruzione scatenati dai bombardamenti sulle città, gli stupri e gli omicidi compiuti dalle truppe di occupazione, la dilaniante realtà della guerra civile.
Negli anni si sono moltiplicate le narrazioni legate alla Shoah: il tentativo di dare una spiegazione al più insensato degli orrori della guerra passa anche per l’invenzione di situazioni a essa legate, come se l’immaginazione dei nazisti e di Himmler non fosse già abbastanza creativa. La vita nei campi di concentramento e di sterminio ci è stata raccontata in ogni modo: documentaristico, romanzesco, grottesco e persino con sfumature fantasy. Ma pochi autori si sono concessi di indagare il dopo, quel ritorno alla vita – che non poteva per forza di cose essere ritorno alla normalità – che per alcuni è stato così insopportabile da essergli preferita la morte.
Lo fa Paolo Casadio, autore di ‘Fiordicotone’ (Manni, 266 pagine, 17 euro) che con la delicatezza che i lettori hanno imparato a conoscere nei precedenti romanzi (‘La quarta estate’ e ‘Il bambino del treno’) torna sui temi che gli sono cari e alle atmosfere che gli sono più congeniali. Se ‘La quarta estate’ raccontava il prima della Guerra e ‘Il bambino del treno’ il durante, questo ‘Fiordicotone’ prende le mosse dal momento in cui le armi finalmente tacciono e si può non solo pensare a ricostruire strade e città, ma le esistenze stesse.
Difficile riuscirci per una come Alma, la protagonista, uscita dal campo di concentramento di Auschwitz non solo viva, ma addirittura in forma: ben nutrita e con la straordinaria bellezza ancora intatta. Solo perché a lei, come alle ragazze ebree più belle, è toccato il destino di intrattenere le SS nel bordello del del lager. È viva, sì, ma e ferite che si porta dentro sono profonde e la più profonda di tutte ha il nome della figlia, Velia, sfuggita miracolosamente al rastrellamento e che ora deve riuscire a trovare.
Casadio ci regala un’altra storia indimenticabile, in cui il dolore si stempera, ma non si affievolisce, in una scrittura delicata. Non sottrae nulla all’orrore e agli errori, non giustifica e non assolve, ma avvolge tutto in una dimensione che, quietato il rombo dei cannoni e il fragore delle esplosioni, apre a una speranza cauta, che muove passi incerti tra le macerie della guerra.