AGI - Davanti al cimitero di Nembro c’è una lapide in memoria dei caduti. Porta 126 nomi per la Prima guerra mondiale e 98 per la Seconda. Di Covid-19, tra la fine di febbraio e aprile 2020, sono morte 188 persone, di cui 164 a marzo. Su una popolazione di 11.500 abitanti. Questo racconta Gigi Riva nel suo ultimo libro, “Il più crudele dei mesi” (Rizzoli, 204 pp). Un mese di silenzio, imposto dal lockdown, squarciato solo dalle sirene delle ambulanze. Riva ne conta sette in una telefonata di un quarto d’ora. Un comune piccolo, pieno di vita, dove tutti si conoscono o sono volti conosciuti, che si scopre - la sera del 23 febbraio - uno dei primi focolai d’Italia. Fino ad allora il coronavirus sembrava tanto lontano da essere rilegato alle cronache degli esteri. L’attenzione era per altro: gli eventi culturali, le partite dell’Atalanta, le attività nella parrocchia.
Riva, per anni inviato di guerra, racconta la pandemia che ha sconvolto il paesino della Valle Seriana. E lo fa perché è il suo paesino. Qui è nato e qui ha trascorso la giovinezza. La sua vita si era intrecciata con tante di quelle delle vittime. E il libro è anche un modo di onorarne la memoria. E rendere pubbliche le testimonianze dei vivi. Come quella di Barbara, l’impiegata dell’anagrafe del Comune che doveva inserire a getto continuo i certificati di decesso dei suoi compaesani con le lacrime che bagnavano la tastiera. Ma al centro è il paradigma universale della prima ondata del Covid-19 che permette a ogni lettore di immedesimarvisi, perché in quei mesi miliardi di persone vivevano la propria Nembro. E ancora oggi, due anni e 6,2 milioni di morti dopo, il lockdown continua a essere parte del nostro presente. Seppur lontano ma dovremmo aver compreso che non lo è mai abbastanza. Nell’ultimo mese sono state in isolamento, totale o parziale, Shanghai e una ventina di altre città cinesi. Si tratta di 193 milioni di abitanti messi insieme - il 13,6% della popolazione cinese - e 3.600 miliardi di Pil, il 22% dell'economia del Paese.
Nel mese crudele di Nembro quasi tutti avevano perso qualcuno. Tanti anche più di uno. L’otto marzo, era una domenica, ci furono undici morti. Il 12 marzo dodici. I rintocchi delle campane che annunciano i decessi erano stati aboliti per non aggiungere disperazione alla disperazione. Ma per quanto isolati era impossibile non ricevere le notizie dei lutti. E’ del 18 marzo lo scatto dei camion dei militari che portavano le bare fuori da Bergamo perché la macchina della sepoltura non reggeva il passo della letalità del virus. Prima di quel 23 febbraio i necrologio occupavano generalmente un paio di pagine sull’Eco di Bergamo, il giornale locale. A marzo sono state stabilmente sopra le dieci. Il 24, 25 e 26 hanno raggiunto il picco di tredici. Tredici pagine di elenchi di persone che non ci sono più.
Ma Riva di Nembro racconta anche, e soprattutto, la vita. Della cittadina e dei suoi abitanti. L’orgoglio della provincia, l’amore per la montagna e la fede cieca per l’Atalanta. Scrive di chi sceglie di viverci rifiutando le offerte del successo nelle metropoli d’Italia e del mondo. Come Gianni Bergamelli, pittore e musicista, ultra-novantenne. Conteso da Berlino a Milano ma lui non ha mai voluto vivere altrove. “Io ho bisogno di andare tutti i giorni in piazza, sedermi sulla panchina e vedere Nembro che mi gira attorno. Sono felice così”, è la sua massima.
Nel libro si ripercorre con la letteratura del vero la storia della città con la biografia dei suoi abitanti. Di quelli “caduti” nel “più crudele dei mesi”. Ma anche l’eroismo quotidiano, la tenacia e l’abnegazione di chi ha voluto dedicarsi al prossimo nel momento della solitudine. Dal sindaco al parroco, dagli infermieri ai medici di famiglia. Quelli che hanno tenuto accesa la fiaccola della speranza nella notte più buia. In attesa della nuova alba.